“Io vojo fà er botto” diceva lo Zingaro, unico personaggio cinematografico italiano a essersi imposto nella cultura nazionale negli ultimi 10 anni, in una scena di Lo chiamavano Jeeg Robot. Dopo aver (ri)visto Freaks Out, presentato pochi mesi fa al festival di Venezia, non possiamo che confermare le nostre Impressioni di Settembre che quella non fosse solo una battuta memorabile, ma un vero e proprio manifesto dell’autore di entrambi i film, Gabriele Mainetti, la cui missione nella vita sembra essere liberarci dal vizio “un po’ troppo italiano” del disfattismo con cui guardiamo alla sorte del nostro cinema un tempo glorioso.“Genere ragazzi, Genere!!!” (dicevano gli Skiantos), e indubbiamente l’annosa questione della possibilità di tornare ai fasti truculenti, esaltanti, ma soprattutto fonte di introiti dei vari Leone, Argento, Di Leo ha una parte importante nel discorso di Mainetti.
Tornare a pensare il cinema italiano in termini efficacemente industriali impone però di confrontarsi con la contemporaneità, cosa che il regista-sceneggiatore romano ha fatto prendendo di petto la voga supereroistica degli anni ‘00-‘10. Ma se in Jeeg Robot il supereroe era amatriciano, ignorante, quasi pasoliniano attraverso il noir di borgata di Caligari, con Freaks Out saliamo decisamente di giri.
Ancora una volta Mainetti e Guaglianone indovinano la ricontestualizzazione italiana dell’immaginario Super. Il film è un esplosivo mix di fantasie revisioniste sull’epoca dei totalitarismi – da Del Toro a Tarantino – che sa benissimo quanto il superhero movie all’ammerricana abbia sguazzato nei ricordi del Nazismo (Magneto durante e dopo gli X-Men di Bryan Singer) e che quel periodo offre occasioni d’oro di raccontare con piglio spettacolare temi ultracontemporanei come il Diverso/Freak/Queer. Il tutto su uno sfondo storico che non può per ovvie ragioni non avere il giusto respiro internazionale, quello che serve per passare dai supereroi denoartri alla serie A. Se aggiungiamo che 12 milioni di budget nelle mani di un piccolo Re Mida sembrano più 80-90, che la sceneggiatura è quella di un’action-adventure di ferro, che l’azione è esaltante e il cast fa faville, non si può che togliersi il cappello davanti alla lucidità con cui si è lavorato per rendere plausibile un obiettivo tanto ambizioso. Mainetti pensa Hollywood, e proprio quando lo aspettiamo al varco dimostra che oltre al fumo c’è l’arrosto, la capacità di raccontare e risultare credibili gestendo risorse sostanziose. Quando uno dei personaggi promette agli altri di non abbandonarli, sembra quasi di vederlo gongolare al pensiero delle offerte che fioccheranno da oltreoceano.
Già, l’America. Eterna terra promessa. Si potrebbe dedicare un’intera recensione solo a mappare la rete di riferimenti, prestiti e strizzate d’occhio con cui il film si offre a pubblico e critica USA. Freaks Out è un raffinato pezzo di design cine-propagandistico, studiato per calzare come un guanto nel sistema di aspettative del paese leader dell’entertainment in Occidente. Già il fatto di ambientarsi durante l’occupazione nazista è un goal a porta vuota considerato quanto la mistica della Seconda guerra mondiale e della Greatest generation, filtrate attraverso l’immaginario neorealista, caratterizzino ancora la ricezione americana del cinema italiano (dopo più di 50 anni la locandina americana di La vita è bella, altro film di inusitata astuzia comunicativa e premiato con l’Oscar, esibiva strategicamente una bicicletta…). Poi c’è la Shoah, che da una parte vuol dire Spielberg – continuamente evocato, dalle avventure ammazzafascisti di Indiana Jones al dramma storico di Salvate il soldato Ryan e Schindler’s List – e in generale interfacciarsi brillantemente con l’intellighenzia ebraica di Hollywood; dall’altra, come già in Synger, è il perfetto innesto per discorsi contemporanei sulla diversità. E volete che si siano scordati di Bella ciao, ultimamente la canzone italiana più famosa nel mondo?
Volendo, a questo punto, il discorso si potrebbe anche chiudere. Il film è in sala, lasciamo che faccia il suo percorso ed eventualmente congratuliamoci per i segnali di vita, nuova linfa, riscossa ecc. ecc. Sinceramente la cosa più importante ci sembra questa.
Per onestà però, visto che efficacia industriale e trascrizione di un immaginario non sono tutto, e anche un po’ per fare gli avvocati del Diavolo, ricordiamo che Freaks Out lascia con tantissimo di cui discutere. Le accuse di revisionismo piovute su Tarantino, Waititi & Co sono destinate a ripresentarsi decuplicate in un Paese dal delicato retroterra storico-politico come il nostro? Già a Venezia qualcuno storceva il naso davanti al ritratto un po’ vittimista di un’Italia occupata dove tutti sono partigiani e i fascisti non esistono.
Quanto supereroismo e mitopoiesi si possono iniettare in un contesto come quello italiano prima che avvenga un rigetto? E ancora, fino a che punto è da lodare un’operazione commerciale (per quanto intelligente) che strumentalizza ogni microscopico stereotipo italico pur di andare a bersaglio? Due cose possono essere vere al contempo. Si può lodare Mainetti come nuovo grande affabulatore e costruttore di immagini, sperare che Freaks Out faccia er botto, e continuare a porsi questi dubbi.
Lorenzo Meloni