Direction Under 30 è un festival teatrale che si tiene ogni anno, da dieci anni, al Teatro Sociale Gualtieri, nella cittadina emiliana da cui prende il nome. Il festival nasce dalla volontà-necessità degli organizzatori di fornire uno spazio di confronto per compagnie emergenti under trenta, selezionate, giudicate e premiate da spettatori anch’essi under trenta.

Sono sei le compagnie che si presentano sul palcoscenico emiliano in tre giorni di festival. Il programma vede la messa in scena di due spettacoli al giorno, ciascuno seguito da un incontro con gli interpreti, una sorta di Q & A a giurie riunite.

Alle giurie, critica e popolare, spetta poi il compito di assegnare due premi (non conferibili allo stesso lavoro). Il Premio della critica consiste in una replica a cachet a Festival Aperto 2023, organizzato dalla Fondazione I Teatri di Reggio Emilia; mentre il Premio delle giurie, conferito a voto congiunto dai componenti di entrambe le compagini, consta di un premio in denaro del valore di 4.000 euro.

Orizzontalità è la parola che meglio descrive l’atmosfera che si respira a Gualtieri. Ciò che rende speciale Direction Under 30 è la possibilità di un confronto completamente paritario tra coetanei, spesso con esigenze e aspirazioni comuni. A Gualtieri si fa il teatro e lo si osserva farsi, si è parte di un rito sociale antico. Ma non è solo questo, a Gualtieri si mangia e si beve fianco a fianco, si scherza, si balla, si sta in compagnia; prima e dopo ogni spettacolo, le giurie, i performers, i tecnici e gli organizzatori condividono la tavola intessendo nuove relazioni. Direction Under 30 non è una vetrina ma un affaccio su un paesaggio in perenne rinnovamento, non ci sono barriere ma solo porte aperte, al pian terreno, che mettono in relazione più universi. A Direction si è liberi di mettersi in gioco, e si è tutti messi in condizione di sostenere un confronto che non è uni- o bi-,  ma multilaterale, come un cerchio accogliente tracciato a partire da tante individualità.

È un rito che dura tre giorni al Teatro Sociale Gualtieri: si entra da una porticina laterale, si passa dietro la postazione di regia e appena arrivati sulla soglia della platea siamo spiazzati, un brivido percorre la schiena, poi sale il calore della meraviglia, l’occhio sembra tradirci, ma non stiamo sognando. Davanti a noi i palchetti a ferro di cavallo, sopra di noi, in alto, il graticcio. Lo sguardo incredulo si sofferma su una sala ribaltata, metateatrale già nella veste architettonica, che ci porta inevitabilmente a riflettere sul senso di fare teatro, e forse a una ridefinizione del contesto scenico e dello scambio che intercorre tra attore e spettatore. A Gualtieri la definizione di spett-attore non va sprecata, e si incrementa di senso, ancor prima che si abbassino le luci di sala ci sentiamo tutti come tali. A Gualtieri, l’orizzontalità emozionale e la verticalità fisica coesistono in un connubio perfetto.

E il rito non si estingue con l’ultima battuta, ma continua e si moltiplica, fuoco perpetuo, negli sguardi e nelle parole dette a fior di labbra o urlate, nelle discussioni accese fino alla soglia dello scontro, nelle lumache e nella zucca del Nizzoli, nell’oratorio di fianco alla chiesa, nelle sfide a basket, nella piazza Rinascimentale o lungo l’argine del Po: in una fresca notte d’estate aspettando l’alba, con la malinconia negli occhi e la nostalgia che già si posa sul cuore. 

Dicevamo sei compagnie per sei spettacoli in tre giornate:

Ecologia capitalista di Dimore Creative; ha messo d’accordo tutti. Probabilmente la messa in scena più debole dell’edizione che si sviluppa in un confuso spettacolo di narrazione, citazionista fino al plagio ma che ha dalla sua un accompagnamento musicale dal vivo, e un sapiente utilizzo delle luci nella definizione dello spazio drammaturgico.

Kobarid, il silenzio degli ultimi di Matrice Teatro; sfrutta il pretesto della disfatta di Caporetto per raccontare le guerre combattute dagli ultimi, di qualunque estrazione sociale o fazione essi siano, costretti all’assalto anche contro la loro volontà (emblematico l’ordine di Cadorna: «Morire, non ripiegare!»), ormai ridotti a fantocci svuotati della loro umanità. È uno spettacolo di clownerie che vede un solo attore in scena mettersi in relazione con gli oggetti che abitano il palcoscenico/campo di battaglia.

Belly Button di Crack24; come fa Bandersnatch della serie Black Mirror, mette lo spettatore nella condizione di poter giocare a fare Dio con una famiglia di tre persone, qui attraverso dei sondaggi su un gruppo whatsapp, e lo mette di fronte a scelte man mano sempre più impegnative, per poi tradirlo in ultima istanza, lasciandolo perplesso davanti all’invito ad empatizzare con il padre, il carnefice della vicenda familiare messa in atto.

Ototeman_what if di Galvan/Menestrina; è uno spettacolo di teatro-danza che vede due personaggi giocare sulla scena, alla ricerca della fanciullezza perduta. I riferimenti sono tanti, gli androidi di Blade Runner uno su tutti, la messa in scena è fortemente emozionale e giocata sui sussulti leggeri dei due corpi che ballano e si intersecano tra loro, di volta in volta, trasformandosi l’uno nell’altro.

Tre liriche, della compagnia Eat the catfish, si aggiudica, inaspettatamente (le parole costano, non ne spenderò altre), il Premio delle giurie; mentre quello della critica va ad Afànisi, presentato da Ctrl+Alt+Canc, che viene premiato per: «[…] aver sperimentato un linguaggio in grado di risemantizzare l’esperienza teatrale attraverso un coinvolgimento, non scontato, del pubblico, mettendo al centro l’autonomia e la capacità immaginativa del singolo spettatore, per la coerenza della ricerca e per aver dimostrato una progettualità riconoscibile e in evoluzione». Afànisi, uno spettacolo straordinario (nel senso di “fuori dall’ordine cui siamo abituati”), riesce spaccare il pubblico, di norma un’entità unica, lo spezzetta fino alla singola individualità e cuce lo spettacolo addosso a ogni spettatore sfruttando la sua immaginazione. All’inizio della pièce ci viene chiesto di immaginare una persona, e quella sarà la protagonista di uno spettacolo in cui «non c’è niente da vedere».

Tommaso Quilici