Regia di Pablo Larraín

A pochi giorni dal cinquantesimo anniversario del colpo di stato che portò alla destituzione del presidente Salvador Allende, all’ottantesima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia fa il suo arrivo El Conde, il film di Pablo Larraín incentrato sulla figura del generale e dittatore cileno Augusto Pinochet. Definizione tanto vera quanto inesatta, per tutta una serie di motivi.

Il primo è che il personaggio qui rappresentato nasce in Francia col nome di Claude Pinoche; il secondo è che la Francia in cui cresce è quella di Luigi XVI; il terzo è che Claude è un vampiro. Un vampiro orfano reinventatosi finto rivoluzionario, con l’intento di far fallire qualsiasi moto atto a ribaltare l’ordine costituito, e che alla decapitazione di Maria Antonietta decide di evaporare momentaneamente dalla storia e di spuntare in diverse parti del mondo, con conseguenti metamorfosi, ovunque un governo totalitario abbia bisogno del suo intervento.

Ritorna infine nel 1935 in Cile, nella porzione di storia che tutti conosciamo, nelle vesti del futuro generale Pinochet, con l’intento mai nascosto di diventarne, finalmente lui in prima persona, il sovrano assoluto. Ma alla caduta della dittatura è lo stesso Pinochet che decide di lasciarsi morire, per così dire, smettendo di bere sangue umano ed entrando in uno stato di quiescenza.

Con un ulteriore balzo in avanti, lo ritroviamo nel Cile dei giorni nostri, ancor più decrepito, che si aggira con l’aiuto di un deambulatore in una villa sperduta nelle campagne. Nel frattempo, un vampiro in alta uniforme svolazza nei cieli di Santiago, uccidendo e asportando il cuore delle proprie vittime, persone qualsiasi, con un lungo coltello ricurvo, per poi frullarlo e bere il macabro intruglio. Il terrore dilaga nella capitale, e la famiglia dell’ex presidente inizia a sospettare della sua voglia di tornare in forma e di riprendere il potere.

Sono soprattutto i cinque figli, la moglie e il fedele maggiordomo – “quel che è rimasto della famiglia che ha regnato per vent’anni” – tutti “normali” esseri umani, a stringersi attorno al patriarca, intenzionato a voler morire di nuovo, non potendo sopportare di venire ancora considerato come un ladro – “assassino sì, ma ladro mai” dice con tono vittimistico – deciso ora a informarli su dove si trovi l’immenso capitale finora nascosto, stimolando così i loro umani appetiti nei confronti del denaro e del potere.

Ed è qui che entra in gioco un personaggio esterno, una giovane suora mandata in missione dalla Chiesa per eseguire l’esorcismo sul vampiro – e perché no, per portare indietro anche il tesoro del presidente – che grazie alle sue competenze matematiche si traveste da consulente finanziario in aiuto alla complessa situazione economica della famiglia. L’arrivo della ragazza scatena nel generale un sentimento non preventivato, l’amore (“Chi ha detto che i vampiri sono senza amore? Ma i vampiri sanno che l’amore non è eterno.”), che senza bisogno di trasfusioni gli fa tornare voglia di vivere e imperversare nel mondo.

El Conde, dal titolo con cui Pinochet ama farsi chiamare, è un’opera di satira grottesca dagli infiniti rimandi sia fattuali che di semplici atmosfere (“Lui è tornato” e il corrispettivo nostrano “Sono tornato”, “Il fascino discreto della borghesia”, nonché tutta la sterminata filmografia sui non morti), ma al tempo stesso qualcosa di mai visto prima. Un dittatore, che è anche un vampiro di 250 anni che si muove per la storia uccidendo e bramando il potere assoluto, non è di certo una metafora di difficile lettura: l’uno e l’altro, la figura classica del vampiro e la dittatura, sopravvivono distruggendo gli altri, i più deboli, il popolo, generando in esso terrore dal quale traggono una sorta di ordine forzato che tiene strette le redini del tessuto sociale. Ma mentre la dittatura spesso, o almeno in questo caso, ha una fine, lo status di vampiro non cambia. 

Ed è qui che il messaggio di Larrain e del co-sceneggiatore Guillermo Calderon, col quale il regista ha scritto buona parte delle sue opere in lingua spagnola, si fa ancora più interessante: l’eredità politica e sociale lasciata da quell’epoca non muore, ma continua a imperversare e a riproporsi assieme ai crimini in essa commessi. A maggior ragione in uno stato come il Cile, dove i conti con quel periodo sono tuttora aperti e dove forse, vista l’impunità di fatto che il generale riuscì a ottenere in un modo o nell’altro, in ultima battuta morendo prima di poter essere sottoposto a qualsiasi processo, non saranno mai chiusi.

Un aspetto spiazzante è che informazioni che dovrebbero essere sconosciute ad alcuni personaggi non lo siano, per non si sa bene quale precisato motivo. Un esempio è la suora sotto mentite spoglie, che i familiari del dittatore riconoscono subito come tale e durante le interviste da lei tenute per ripercorrere la storia fiscale dei Pinochet accettano di buon grado di farsi insultare ripetutamente dalla ragazza, ringraziandola sorridenti degli improperi. Un ulteriore scaricamento e ridimensionamento di responsabilità, un ulteriore calcio al popolo, un ulteriore rafforzamento della consapevolezza della propria eterna impunità.

A questo punto, e visto anche il finale con sorpresa dischiuso sotto l’albero genealogico dei Pinochet, viene da chiederci se i vampiri non siano tutti di destra.

Federico Benuzzi