“Mi diedero un’urna con dentro qualche osso. C’era un cranio. Chiesi cos’era. […] C’era un ciuffo di capelli, l’ho tagliato e tenuto. […] Avevo una figlia sana, intelligente e bella. L’hanno rapita e mi hanno ridato un mucchio d’ossa. È tutto quello che ho da dire.”
– Madre di una desaparecida nella testimonianza al processo

Non vi è trama in El Juicio, letteralmente “Il processo”, di Ulises De La Orden, film in concorso nella XVI° edizione di Archivio Aperto e che verrà proiettato domani, sabato 28 ottobre, alle 17.45 al Cinema Lumière di Bologna. Tutto il girato è composto da riprese da camere fisse dell’aula di tribunale dove si svolge, appunto, il processo alle giunte militari che governarono l’Argentina dal ’76 all’83. Non vi è trama perché tutto ciò che vediamo o sentiamo è l’eco di un’eco, riprese del passato di altre memorie, in cui la Storia prende il posto della trama srotolandosi su due violente – in questo caso per gli spettatori – scie parallele: quella del racconto di ciò che accadde in quegli anni terribili per lo stato sudamericano e quella del processo in cui questi fatti vengono narrati, storico anch’esso, che ci ingloba forzando la posizione del nostro sguardo in maniera coatta come accadeva in un suo illustre e simile predecessore, quel The Kiev Trial di Sergei Loznitsa (presentato fuori concorso a Venezia 79) che ci mostrava invece la Norimberga sovietica, con la differenza sostanziale nel cambio di ambientazione e di soluzione finale.

Non si sa quante persone furono rapite durante la dittatura poiché i vertici distrussero tutti i documenti che potevano fungere da minima testimonianza, in un ulteriore vigliacco atto di violenza. Si parla però di decine di migliaia: studenti, dunque giovani soprattutto, accusati spesso ingiustamente – o no, chi lo sa, ma d’altronde senza processo non esiste colpevolezza – di far parte della guerriglia marxista che con atti terroristici tentava di sovvertire i governi in carica. Fu la cosiddetta Guerra sucia, guerra sporca, la repressione violenta – che sfociò in deliberate violazioni dei diritti umani su larga scala – adottata dai vari generali che si susseguirono al comando, e che vediamo nel film sul banco degli imputati, a partire da Videla.

Il punto di vista non è una scelta del regista. Siamo obbligati a essere posizionati di fronte o lateralmente quando parlano i giudici, il procuratore e gli avvocati, alle spalle di chi parla, invece, se si tratta dei testimoni o degli imputati. Non li vediamo quasi mai in faccia questi ultimi, soprattutto i testimoni, che si susseguono quasi completamente ignoti, la maggior parte non annunciati, tutti senza alcuna didascalia o indicazione di sorta, questa sì decisione di De La Orden. Possiamo soffermarci solo sulla loro nuca e su qualche misero centimetro quadrato di pelle del volto, oltre che sulla voce. E questo particolare, reiterato per tutta la durata del film, ha l’effetto di materializzarci oltre l’empatia verso le vittime e i loro parenti (o la rabbia verso gli aguzzini), ponendoci invece nella situazione di essere esattamente al loro posto. Non è importante in questo film sapere chi sta parlando, ma è solo ciò che viene detto che acquista valore. Sembra volerci comunicare parole che avremmo potuto dire anche noi, sia da una parte che dall’altra, perché per quanto disumane siano le azioni descritte in maniera così vivida durante il processo, siamo tutte e tutti appartenenti alla stessa specie, ed è giusto fare i conti con ciò di cui siamo capaci, con la nostra fallace capacità di giudizio, così come col nazismo – parola che esce fuori spesso assieme a numerose altre appartenenti al vocabolario del Terzo Reich –.

A braccetto, ma in qualche modo contrapposti alla staticità delle immagini, ci sono i corpi, titolo di uno dei 18 capitoli in cui l’opera è suddivisa, fermi ma sudati, tremanti e stanchi dei partecipanti al processo, che non riescono a nascondere la privazione del sonno portando davanti alla camera e ai nostri occhi una sorta di ulteriore tortura. Ed è una coincidenza particolare che proprio in quel momento si parli dei corpi delle vittime che non sono mai stati restituiti, nemmeno su richiesta delle famiglie, o che sono stati lasciati marcire sotto strati di vermi in traboccanti fosse comuni – immagini a cui abbiamo assistito anche recentemente su altri fronti –.

È un film semplice El Juicio e lo è nel senso più alto che il significato di questo aggettivo può raggiungere. O meglio, è un film impossibile, reso semplice da un lavoro mastodontico di visione e montaggio che ha ridotto le 530 ore di udienze pubbliche a soltanto 3 – dall’impressionante pertinenza e continuità tematica – ma non solo. È un’opera che ci richiede di abbandonarci, perché lascia, ancora una volta, senza punti di riferimento, smarriti in mezzo a un fiume infernale di descrizioni: sono pochi gli appigli storici, poche le date, pochi i nomi e per chi come noi probabilmente non ha un rapporto diretto con quella Storia, è ancora più complesso orientarcisi. Ma De La Orden ci toglie da quest’impiccio, e col suo radicale collage cronologico toglie le carte in tavola, dicendoci che a ‘sto giro non è poi nemmeno importante sapere chi fossero Ocampo o Agosti, l’importante è ascoltare dalle bocche di chi ha vissuto quel girone dantesco cosa accadde. L’obiettivo diventa dunque scolpire nella nostra memoria la “discesa negli abissi dell’animo umano” che questo processo rappresenta e a cosa può arrivare, per esempio, una guida spirituale, un prete, di alcuni giovani cattolici anche loro desaparecidos.

Ed è proprio sulla memoria, sul ricordo, che il procuratore Strassera, le cui gesta sulla costruzione e lo svolgimento del Juicio sono state romanzate nel brillante “Argentina, 1985” di Santiago Mitre, in concorso nel 2022 al Festival di Venezia, auspica si basi la pace da costruire da quel momento in avanti, contrapposta all’oblio, alla sospensione del diritto umano e civile, portato dalla dittatura sotto il proclama della “necessità di protezione dell’essenza dell’identità nazionale”, qualsiasi cosa queste parole significhino.

Future is memory, futuro è memoria, è il titolo di questa edizione di Archivio Aperto: Julio César Strassera sarebbe stato senza dubbio d’accordo. 

“Andammo a casa mia. Ero seduto su una panca e sentii la radio del vicino annunciare che avevamo vinto la guerra. Mi chiesi con tristezza chi l’avesse persa. La gente.
– Testimonianza diretta durante il processo

Il programma completo del festival Archivio Aperto è su http://www.archivioaperto.it

Federico Benuzzi