What is real? What is not? Does it matter?
Nella selezione dei lungometraggi in concorso internazionale della ventunesima edizione del RNFF approda in sala – fisica e virtuale su MYmovies – My Mother’s Eyes, horror fantascientifico diretto da Takeshi Kushida.
Ed è proprio nello stesso Festival che il pubblico aveva avuto modo di conoscere l’autore giapponese, quando nel 2020 il concorso era stato aperto dal suo lavoro precedente, Woman of the Photographs, opera che portava al centro della vicenda la visione iper critica sul corpo imperfetto.
Hitomi e Eri sono madre e figlia. Vivono la loro quotidianità insieme in un rapporto complice e complicato, unite dalla passione per la musica, linguaggio principale attraverso cui vengono espletate le azioni per la quasi totalità del film.
A seguito di un grave incidente stradale Eri rimane paralizzata dal collo in giù e quindi costretta in un letto di ospedale. Hitomi perde la vista ma con l’utilizzo di sorprendenti lenti a contatto può riacquisire questo senso e addirittura condividerlo, proprio con Eri. La ragazza, attraverso un visore ottico, guarda ciò che vede la madre e partecipa in maniera attiva, sostituendosi anche verbalmente a Hitomi e immedesimandosi totalmente a ciò che la sua stessa madre vive.
L’una e l’altra si confondono tra di loro in ruoli non definiti. Il rapporto di aiuto si tramuta in un transfer, in cui Eri può “vivere” al di fuori solo attraverso il corpo di Hitomi. E fin dove finisce la vita di una e inizia quella dell’altra?
Verrebbe da chiedersi quale fosse davvero l’intento dei creatori di questa narrazione. Se narrare una storia d’amore materno, o una vicenda profondamente patologica, in cui madre e figlia acquisiscono la stessa visione della realtà, di fatto inglobando sé stesse l’una nell’altra e in cui d’amore si parla poco. La vita virtuale di una si sostituisce alla visione reale dell’altra, proprio come potrebbe accadere in una puntata di Black Mirror, o forse anche nel mondo reale in un futuro non troppo lontano. Favorendo poi anche un linguaggio altro a quello direttamente verbale, di cui si sarebbe potuto fare a meno, la musica diventa l’espressione di volontà, e tutto diviene strumento musicale, per creare e distruggere.
Il regista si muove cautamente nella narrazione, con movimenti lenti e studiati. Una staticità in movimento, paradossalmente.
Un’inquietudine interessante, che ci indirizza verso le questioni orrorifiche della nostra “era”:
Quanto ci spingeremmo in là pur di cambiare la nostra condizione?
Dove finisco io e inizi tu?
Sarah Corsi
