Babygirl
di Halina Reijn (USA)
con Nicole Kidman, Harris Dickinson, Antonio Banderas
Concorso

Romy (Nicole Kidman), amministratrice delegata di una grande azienda di robotica, divide il proprio tempo tra l’appagante posto di comando e la sua famiglia felice. Nuovi promettenti stagisti arrivano a turbare la quiete: soprattutto uno, Samuel (Harris Dickinson), mette in subbuglio la quotidianità della dirigente quando, col suo carattere deciso, inizia a darle piccoli ordini al quale lei non è abituata. Capendo di aver attirato l’attenzione, il giovane decide di affibbiare il tutoraggio del suo stage a Romy, obbligandola a passare tempo assieme che presto si trasforma in momenti di intimità di carattere dominatorio.
Il fulcro del film risulta essere inizialmente il contrasto tra la posizione di potere che Romy occupa sul luogo di lavoro (e anche in famiglia, pre-woke si sarebbe detto “una donna che porta i pantaloni”) e quella subordinata e sottomessa della relazione extraconiugale. Sul finale capiamo però che la regista, qui al suo terzo film sempre targato A24 e 2AM, non vuole solo mostrare, ma porta un’idea ben precisa: l’intento educativo di farsi vedere per come si è con chiunque, anche (ohibò) col proprio partner. Solo così, secondo la regista, il povero marito cornuto (Antonio Banderas, ancora in buona forma attoriale) avrebbe potuto salvarsi dalla cornificazione e da diciannove anni di finti orgasmi.
Rispetto al precedente Bodies Bodies Bodies, un altro degli ultimi vessilli della A24 con protagonisti dei tiktoker GenZ che si urlavano addosso in una sorta di simil-horror-thriller-infiocchettato, qui si tenta lo sforzo del ponte tra la già citata Z e il popolo dei boomers: il risultato alla lunga è meno divertente e più forzato (ma Bodies aveva un altro tono), con un’ironia maturata ma incapace di discostarsi dal linguaggio a pezzetti e coriandoli del social cinese. Alla fine rimane l’impressione di aver assistito a qualcosa di tremendamente noioso e banale: la scena del personaggio “vecchio/noioso” che “inaspettatamente” si scatena in discoteca in mezzo ai giovani, quante volte dobbiamo ancora vederla?

Trois amies
di Emmanuel Mouret (Francia)
con Camille Cottin, Sara Forestier, India Hair
Concorso

Joan non è più innamorata del marito, Victor. Quando trova il coraggio di dirglielo lui, ancora innamorato perso, si ubriaca e muore schiantandosi con l’auto. Alice invece, la sua migliore amica, non ha mai provato passione per il suo compagno Eric, eppure la loro relazione va a gonfie vele. O almeno crede, perché lui nel frattempo ha una relazione con la loro comune amica, Rebecca.
Durante tutta la proiezione è impossibile non pensare a due parole: Woody e Allen. A partire dai titoli di testa, con musichetta da ascensore e (addirittura) font e design identici, fino ad arrivare alla fotografia, ai dialoghi, alle tipologie di relazioni tra i personaggi, ai Deus ex-machina, al narratore esterno – spesso utilizzato dal regista statunitense -. Non stiamo però parlando dell’Allen in forma, bensì del più recente: quello dei dialoghi ultra risolutivi e a senso unico, delle relazioni che non si capisce perché esistano a parte che per motivazioni futili (addirittura si fatica a comprendere quale sentimento spinga queste tre persone a essere amiche), delle situazioni che in un batter di ciglia cambiano per avvenimenti o ragionamenti ridicoli o inspiegabili. Lo stesso regista parla di un film di “colpi di fortuna”, guarda caso il titolo dell’ultima opera di Allen, passata fuori concorso alla scorsa edizione del festival. C’è dunque un grosso problema di scrittura alla base di questo film, che come dice il regista e sceneggiatore Mouret parla di “personaggi che sbagliano, ci riprovano e continuano a sbagliare, come Buster Keaton quando ripetutamente cade e si rialza, ma che una caduta dopo l’altra continua ad andare avanti senza voltarsi indietro e senza dare la colpa a nessuno.” Con buona pace di Keaton, che interpretava un personaggio puramente comico in un’altra epoca, “sbagliare è umano, perseverare è diabolico”, e se per non sbagliare bastava parlarsi per una volta in maniera onesta come bisognerebbe fare tra “amiche”, forse non è il caso di annoiarsi guardando questo film basato su questioni di lana caprina.

Leurs enfants après eux
dei Zoran Boukherma, Ludovic Boukherma (Francia)
con Paul Kircher, Angélina Woreth, Sayyid El Alami
Concorso

Nell’estate del 1992, nella profonda provincia industriale francese, il quattordicenne Anthony (Paul Kircher) e suo cugino cercano di attirare l’attenzione delle coetanee Steph (Angélina Woreth) e Clem, i loro primi amori. Invitati da loro a una festa, Anthony decide di andarci con la cara e preziosa motocicletta del padre (Gilles Lellouche), un uomo alcolizzato e violento. Uno sgarro verso Hacine (Sayyid El Alami), giovane figlio di immigrati nordafricani autoinvitatosi alla festa, porterà quest’ultimo a vendicarsi rubandogli il mezzo, scatenando così una serie di reazioni che cambieranno tutto.
Tratto dal romanzo di Nicolas Mathieu – tradotto in “E i figli dopo di loro”, edito in Italia da Marsilio -, il film mantiene impresso e chiaro il carattere e la natura della storia di formazione. Suddiviso in quattro capitoli, uno per ogni estate con intervalli di due anni dal ’92 al ’98, l’opera dei giovani ma scafati fratelli Boukherma ha tanto del classico: difficile non pensare a Stand By Me per le avventure boschive e le armi da fuoco, a Billy Elliott per le relazioni familiari – soprattutto quella paterna -, a Chiamami col tuo nome per le musiche (e la discoteca all’aperto), e anche, perché no, a Forrest Gump e all’amore indissolubile del protagonista per Jenny, qui Steph, e alla leggerezza e disinibizione con cui vengono prese decisioni importanti. La piacevole novità è l’uscire finalmente dalle maglie della provincia intesa esclusivamente come banlieu parigina, allontanandoci fino a dove i paesaggi iniziano ad assumere tratti teutonici: qui viene naturale anche affrontare in quel modo, ancora una volta leggero ma senza sconti, il razzismo, il diverso, l’ignoranza, e l’assenza di prospettive di chi abita luoghi dimenticati.

Federico Benuzzi