Harvest
di Athina Rachel Tsangari (Regno Unito, Germania, Grecia, Francia, Usa)
con Caleb Landry Jones, Harry Melling, Rosy McEwen
Concorso

In un villaggio della Scozia medievale, una comunità agricola vive in pace nonostante avvenimenti devastanti come il rogo al fienile dell’indulgente e benevolo proprietario Charles Kent (Harry Melling). L’arrivo di un uomo d’affari (Frank Dillane), parente di Kent, una migrante (Thalissa Teixeira) e un cartografo (Arinzé Kene) sconvolgerà la quotidianità fino a distruggerla.
Tsangari, alla regia del suo quarto lungometraggio, torna in concorso a Venezia a distanza di quattordici anni da quell’Attenberg che era valso una Coppa Volpi per l’interpretazione femminile (piuttosto inspiegabile, vista soprattutto la concorrenza) ad Ariane Labed, tornando anche all’inglese dopo l’esordio con lo sperimentale The Slow Business of Going. E siamo soprattutto, per la prima volta nella sua ancor piccola filmografia, in un’epoca che non è la nostra. La regista, che ha curato anche la sceneggiatura assieme a Joslyn Barnes (in uscita quest’anno anche con The Nickel Boys) basata sul romanzo omonimo di Jim Crace, tenta inizialmente di trasmetterci un’atmosfera, di farci entrare all’interno dei meccanismi relazionali (tra uomini e con la natura), per poi portarci, con l’arrivo di figure nuove sconosciute anche alla comunità, a ragionare sui problemi dell’oggi. Il cartografo è inizialmente accolto con benevolenza, visto come un artista capace di cambiare le prospettive del presente con la sua novità (la riduzione in scala e semplificazione di un territorio vasto, il ribattezzare con nomi meno banali le sue zone in un’operazione di rebranding ante litteram), che disegna e formalizza confini e appiattisce il territorio, togliendo nel suo ultimo lavoro anche la presenza degli umani; la migrante, ingiustamente accusata con i suoi due compari di aver dato fuoco al fienile, fermata mentre stazionava temporaneamente sul territorio della comunità e che vi rimane solo perché le leggi – che mettono i suoi seguaci alla gogna per una settimana – glielo impongono (ricorda qualcosa?); infine, l’uomo d’affari, il capitalista (un ottimo Frank Dillane, che in poche battute dà “una pista”), ovviamente spietato, che finisce con le sue non-politiche di proprietà e la sua spietatezza a sottomettere il buon Kent, a sottomettere le donne del posto (o almeno ci prova), a sottomettere colui di cui non abbiamo ancora parlato, ovvero il protagonista Walter Thirsk. Un personaggio, messo in scena da un a dir poco piatto Caleb Landry Jones, che dovrebbe unire e farci capire gli ingranaggi – che si muovono a velocità e direzioni diverse dalle nostre -, svolazza tra le scene senza lasciarne traccia e non si ribella mai a niente di ciò che gli accade attorno, a volte per motivi apparentemente ridicoli (come quando, durante una colluttazione, cade per terra rimanendovi per un periodo lunghissimo, mentre attorno gli altri lottano contro le milizie del nuovo despota), condannato infine a essere spettatore del niente che lui stesso da ignavo ha contribuito a creare. Insomma, Harvest è un grande quadro di un paesaggista fiammingo che si riduce pian piano a un ritratto preraffaelita, senza che però capiamo bene i perché.
Jouer aver le feu (The Quiet Son)
di Delphine Coulin, Muriel Coulin (Francia)
con Vincent Lindon, Benjamin Voisin, Stefan Crepon
Concorso

Pierre (Vincent Lindon), operaio delle ferrovie cinquantenne, dalla morte della moglie cresce i due figli da solo. Louis (Stefan Crepon), il più giovane, è uno studente modello e sta per andare a studiare alla Sorbona, mentre Fus (Benjamin Voisin) ha terminato anticipatamente gli studi e inizia a frequentare degli amici che militano in gruppi di estrema destra.
Così come esistono le commedie francesi, intese come genere a parte, esistono anche i drammi francesi. Questo Jouer avec le feu, alla lettera “giocare col fuoco”, tenta di raccontare l’oggi prendendolo di petto e provando a smarcarsi dalle possibili facilonerie di trama: la famiglia che vediamo è, al di là dell’enorme lutto che l’ha colpita, una famiglia “normale”, che non vive situazioni di disagio particolari. Una famiglia nella quale l’unica figura adulta mostra abbondantemente il proprio amore, anche se a volte pecca di eccessivo controllo (soffoca, dice Louis), come nella scena iniziale dove Pierre butta via la giacca del figlio, o quando lo segue nel covo degli estremisti. Ma tutti noi siamo a conoscenza di situazioni familiari più disagiate di questa, e non ci sembra abbastanza. E allora qual è il substrato sul quale si avvinghia e cresce l’odio di Fus? La noia della provincia? La moda? La solitudine? La mancanza di appartenenza? La (molto relativa) incapacità del padre nel fare il padre? Non ci è dato saperlo, ma in un film così terreno e concreto sembra che manchi tecnicamente qualcosa, e che il personaggio venga quasi forzatamente portato dalla trama a compiere ciò che, lo sappiamo già, alla fine succederà. Mai un confronto sul tema, mai un momento di reale scoppio della questione, tanto che sembra quasi di ammirare un elefantino in mezzo alla stanza aspettando che cresca e che inizi a distruggere tutto, ma l’attesa resta disattesa. Da questo punto di vista (ma non solo), il dramma delle Coulin ricorda il loro precedente 17 filles, tratto da una incredibile storia vera, che girando attorno alle grandi domande sul perché queste ragazzine avessero deciso di rimanere incinta tutte assieme, non arrivava mai a toccare concretamente la questione. Regia scarna e da compitino (si vede che è stata data più attenzione alla scrittura che alla parte tecnica), buona la direzione degli attori,che però faticano a tenere a galla la nave. Comunque consigliato, vista l’urgenza delle tematiche trattate.
Federico Benuzzi
