Joker: Folie à Deux
di Todd Phillips (Usa)
con Joaquin Phoenix, Lady Gaga, Brendan Gleeson
Concorso

Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), oramai definitivamente il Joker, è rinchiuso ad Arkham, la celeberrima prigione-manicomio di Gotham, in attesa del processo per aver ucciso in diretta televisiva il conduttore Murray Franklin e aver scatenato, involontariamente, una rivolta popolare. Tra le strette maglie del carcere, conosce Harleen Quinzel (Lady Gaga) che, folgorata dalla figura oramai divenuta mitologica, fa di tutto per conoscerlo e unirsi a lui.
Smarchiamoci subito dal personaggio del fumetto perché, forse a ragione, visto soprattutto il finale di questo secondo capitolo, di lui qui c’è ben poco. Il focus del film, che segue il precedente campione d’incassi nonché Leone d’Oro qui alla Mostra del Cinema del 2019, è l’identità: chi è Arthur Fleck, chi è Joker? Esistono entrambi, uno solo di loro o nessuno? Se esistono entrambi, chi ha commesso gli omicidi per il quale si trova a processo? Tutte domande a cui quest’opera non dà risposte – ci mancherebbe –, se non suggestioni sotto forma di canzoni tra Phoenix e Gaga (soffermandoci un attimo, chi mai avrebbe immaginato un duetto tra Commodo e la Fame Monster?).
Tutte domande che però venivano già poste nel primo film. Todd Phillips ha dichiarato: “Con Scott Silver (co-sceneggiatore, ndr) abbiamo scritto una sceneggiatura che approfondiva ulteriormente l’idea di identità.” L’impressione, invece, è proprio quella che Folie à Deux non si muova di un centimetro rispetto a quello che già sapevamo del personaggio che, come dicevamo, è il centro della storia, mancando di idee su come approfondire realmente e andando soltanto a ribadire, a pestare su quanto già visto. Analizzando poi il finale, che non riveliamo, forse l’unica cosa piaciuta davvero di questo prodotto, ci si domanda a maggior ragione perché farne un altro, quando era possibile chiudere così già nello scorso capitolo? Doveva essere un cinecomic ma non lo è, doveva essere un musical, ma non lo è, doveva essere – almeno – più semplicemente il seguito di Joker, ma la sensazione è quella di aver assistito a una puntata filler, di quelle che giocavano coi generi, di una serie tv (anche il labiale dei due attori su alcuni pezzi fuori sync). Sì ma l’intrattenimento? L’attesa per un minimo di azione, visto il titolo, c’era, perlomeno che Joker, forte della sua follia, tirasse almeno un calcio a una lattina, e invece, come con Oppenheimer, ci si ritrova tra le mani un lento e impastrocchiato procedural nel quale il massimo dell’azione si riduce all’accensione di un numero indefinibile di sigarette.
April
di Dea Kulumbegashvili (Georgia, Francia, Italia)
con Ia Sukhitashvili, Kakha Kintsurashvili, Merab Ninidze
Concorso

Nell’ospedale dove lavora, Nina (Ia Sukhitashvili) è la ginecologa ostetrica migliore. Durante un parto, però, un bambino che sta facendo nascere muore improvvisamente. Si avviano dunque le indagini atte a comprendere cosa sia successo, questionando l’etica e le azioni di Nina, che alcuni voci additano come “colei che compie aborti illegali in paese”.
La giovane regista georgiana, al suo secondo lungometraggio dopo Beginning, che aveva trionfato al festival di San Sebastiàn e co-prodotto da Luca Guadagnino, che sfida qui in concorso a Venezia, ci dipinge la figura di Nina, dottoressa disillusa che prende vita negli occhi tristi della splendida Sukhitashvili. Un personaggio che nel pubblico è timido, freddo, dubbioso ma logico, mentre nel personale sconta il peso del proprio lavoro parallelo – lo svolgere aborti illegali (laddove verrebbero comunque fatti, e allora tanto vale che ci pensi la migliore) -, che convive con il senso di colpa della morte della sorella e non si ritiene in grado di avere rapporti sentimentali duraturi (come quello col collega, l’ultimo, terminato otto anni prima), ma solo rapporti occasionali degradanti con estranei, dove può esternare quel poco di decisione e sicurezza che le rimane. Come dichiara la stessa regista: “Nina è un personaggio che ama universalmente ma non ama nessuno in particolare. Possiede un’empatia sconfinata ma fa fatica a stabilire legami personali.”.
Forse è proprio il senso di colpa, forse è l’immagine che lei ha della propria figura carnale o della propria intimità e sentimentalità atrofizzate che vediamo manifestati in un corpo marcescente, un mostro grigio umanoide ma senza volto che nasce e muore nell’acqua (che dona e prende la vita, come nella sua storia) e che compare a infestare i luoghi di Nina, gli ultimi rimasti, e dei suoi ricordi. Un mostro comunque amato da chi lei ha lasciato entrare nella sua vita, da chi ha potuto conoscerla. “L’intenzione”, dice la Kulumbegashvili, “era di esplorare e analizzare la dicotomia e la convergenza tra esistenza e femminilità. Questo mi ha naturalmente portata ai temi della nascita e della morte.” Nonostante la lentezza dell’opera nel complesso e la poca dinamicità delle inquadrature (molte camere fisse), che a più riprese ci donano immagini sgradevoli e respingenti di corpi femminili, (come non se ne vedevano da L’evenement, vincitore al Lido nel 2021), l’impressione è che l’autrice georgiana abbia le idee molto chiare e sia riuscita pienamente nel suo ambizioso intento.
Federico Benuzzi
