Iddu
di Fabio Grassadonia, Antonio Piazza (Italia, Francia)
con Toni Servillo, Elio Germano, Daniela Marra
Concors
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Catello (Toni Servillo) è ex sindaco ed ex preside (carica che gli rimane come soprannome) della scuola di un comune siciliano. Non solo, è anche il padrino di Matteo (Elio Germano), ultimo grande latitante di mafia. Appena uscito dopo aver scontato sei anni in carcere, con la famiglia sommersa dai debiti, viene assoldato dalle forze dell’ordine per intrattenere una conversazione epistolare con il boss e scoprire dove lui, “Iddu”, si nasconde.
Grassadonia e Piazza tornano dopo sette anni dal loro ultimo lungometraggio, Sicilian Ghost Story, e a undici dal loro primo, Salvo, concludendo così dichiaratamente la loro trilogia dedicata alla mafia, con ogni opera di un genere diverso. Per la prima volta a Venezia – i precedenti erano stati selezionati alla Semaine de la Critique a Cannes, sempre con ottime accoglienze – i due registi virano verso un dramma più classico, epistolare se vogliamo, pur non disprezzando i toni della commedia. Molto convincenti su questo versante i personaggi di Elvira, la moglie di Catello interpretata da una grande Betti Pedrazzi, e di Pino, il genero i cui panni sono indossati da Giuseppe Tantillo. Mentre Salvo, un gangster movie, e Sicilian Ghost Story, fiabesco, avevano in comune l’importante componente sentimentale/amorosa ed elementi di realismo magico, in grado in entrambi i casi di emozionare grazie alle storie estremamente terrene che vi si contrapponevano (e nel caso di Sicilian, di una drammatica storia vera), queste componenti scompaiono del tutto in questo terzo “capitolo”. La mafia è mafia, anche se fa ridere. Ci si porta dietro giusto quel ridicolo che, come dicono gli stessi registi, ha trasmesso loro la lettura dei “pizzini” (le lettere) che il boss Matteo Messina Denaro – a cui il Matteo del film è ispirato – utilizzava per tenersi in contatto col mondo esterno, e che sono state la base per questo film. Resta inoltre, soprattutto nella parte finale, quell’atmosfera fiabesca più caratteristica dell’epico, del trovarsi di fronte a un mostro, un “boss” finale, qualcuno di cui puoi sentire la presenza fin dall’inizio, con il quale puoi avere qualche contatto ma che, nonostante il lungo percorso e gli sforzi fatti per raggiungerlo, chissà se vedrai mai. Ma l’aspetto epico di essere al cospetto di un mostro sacro si definisce principalmente nella parte finale, mentre per tutto il film Matteo sembra non avere più voglia di quella che è la sua vita: la solitudine, gli sciocchi passatempo, dei pizzini, di nascondersi, insomma di essere “rinchiuso come un ratto”. A tratti ci sembra quasi che “Iddu” stia mollando, in preda a una revisione sentimentale dell’esistenza, che quasi rinneghi la leggendaria figura del padre che lo ha designato come suo erede (a scapito della sorella maggiore, interpretata da una ancor bravissima Antonia Truppo, e a cui speriamo vengano proposti ruoli più eterogenei). Sembra, ma sarà così?
Piazza e Grassadonia riescono a convincere ancora una volta con la loro ottima scrittura e, variando per la terza volta sul tema mafia in Sicilia in maniera così netta, rispondono anche a chi dice che non si sa più di cosa parlare o che si fanno sempre gli stessi film. Rispetto ai precedenti, si vede la loro impronta soprattutto in fase di regia, che risulta più annacquata (come anche la fotografia di Bigazzi, meno ispirata), anche sul lavoro con gli attori: carta bianca a Germano e Servillo, che non fanno niente di più che il loro teatrale dovere, e a un cast di comprimari che non convince, Russo Alesi e Marra in primis. Nonostante questo, il film è, per chi scrive, il migliore italiano in concorso assieme a Vermiglio.


Stranger Eyes
di Siew Hua Yeo (Singapore, Taipei, Francia, Usa)
con Wu Chien-Ho, Lee Kang-Sheng, Anicca Panna
Concorso


La piccola “Little Bo”, neonata di una giovane coppia, sparisce mentre il padre (Wu Chien-Ho) che la sta sorvegliando è al telefono. I genitori cominciano a ricevere DVD contenenti dei video in cui sono ripresi nella loro vita quotidiana, anche all’interno di casa loro. La polizia mette la casa sotto sorveglianza per arrestare lo stalker, che si ritiene anche essere il rapitore di Little Bo, ma intanto nei video iniziano a comparire segreti che allontanano ancora di più i coniugi.
C’è, purtroppo, poco da dire su questo film. La prima parte è convincente e interessante, mentre attorno a noi si sviluppa il dramma della coppia che non sa che fine abbia fatto la propria piccola, e che nel frattempo è violata anche nell’intimo della propria casa e della propria quotidianità. Finché banalmente c’è il mistero, tutto funziona. Chi arrivato fin qui sperava in un poliziesco o un thriller rimarrà però deluso perché, in un amen, questo mistero viene dipanato. A questo punto la storia prende sorprendentemente una non-piega nella quale l’autore, reduce dal Pardo d’Oro vinto a Locarno con A Land Imagined nel 2018, vorrebbe incastrare un discorso sul guardare, l’essere guardati, il voyeurismo e il piacere che queste azioni provocano. La scrittura, l’impalcatura della storia, non lo seguono nel suo obiettivo, e l’opera, nonostante (o forse proprio per) l’ambizione e la non eccessiva complicatezza dell’intreccio, non arriva mai ad accendere in maniera convincente quei temi, tanto sottolineati dalle ripetizioni di immagini di telecamere di sicurezza e dei loro prodotti, oltre che dai filmati amatoriali.


Broken Rage
di Takeshi Kitano (Giappone)
con Beat Takeshi, Tadanobu Asano, Nao Ômori
Fuori concorso


Un sicario della Yakuza (Beat Kitano) viene preso dalla polizia, ormai anziano, dopo alcuni omicidi efferati. Per tornare libero si impegna ad aiutarli sotto copertura a catturare alcuni boss del traffico di droga.
Kitano torna a un anno da Kubi, presentato fuori competizione a Cannes nel 2023, con quest’opera che lui stesso definisce di “stile nuovo e azzardato”. Dalla durata inconsueta – sia per lui che per il festival – di un’ora e due minuti, il film è in realtà composto da due parti dalla trama identica, una originaria e una “spin-off”, nella quale la storia seriosa (ma non troppo) che abbiamo visto inizialmente, viene parodiata da cima a fondo, fotogramma per fotogramma. L’autore prende così in giro il sé della prima parte, ma anche tutta la filmografia legata al genere che lui stesso ha contribuito a rendere classico, se non leggendario (lo testimoniano le urla e gli applausi ascoltati in sala già durante i titoli di testa). Scopriamo anche un Kitano sorprendentemente (per puro pregiudizio) aggiornato sul mondo dell’online e sul linguaggio utilizzato dai suoi fruitori, quando a metà e a fine film fa scorrere una finta sequela di opinioni su quanto appena visto, a mò di commenti social: a qualcuno potrebbe sembrare un modo di pararsi dalle critiche, ma in sala è sembrato solo un altro colpo di genio del regista, che ha dimostrato di avere pieno controllo su quanto da lui immaginato. Il film più divertente del festival (e ci voleva), che forse meritava, anche se apparentemente poco ambizioso, qualcosa di più della presentazione fuori concorso.

Federico Benuzzi