È il 1982. Al Palestinian Research Center di Beirut, capitale di un Libano purtroppo nominato in queste ultime settimana, l’esercito israeliano irrompe e depreda l’archivio che contiene documenti di qualsiasi tipo: donazioni di organizzazioni, dichiarazioni dei redditi, tutti documenti, pubblici o privati, storici sulla Palestina, tra i quali figuravano anche collezioni di fotografie e immagini in movimento. Un vero e proprio sequestro, con probabile intento spionistico, ma anche di annientamento e possessione colonizzante della storia di un altro paese, laddove proprio si pensava che questa fosse al sicuro e non potesse essere toccata. Tutto il materiale che vediamo nel film di Aljafari viene da lì, da quei documenti – in particolar modo dalle pellicole – rapiti e poi infine ritrovati, rieditati e rimontati con scopi precisi, ovvero una contro-narrazione opposta alla perdita dovuta alla violenza iniziale, una forma di sabotaggio cinematografico che tenta di vendicare e ripristinare le memorie sottratte alla storia palestinese. Il susseguirsi delle immagini ci porta dentro la quotidianità palestinese, nel bene e nel male. Epoche diverse, il mandato britannico dei primi del ‘900 e la successiva occupazione israeliana, nelle quali vediamo il paese e i propri abitanti cambiare drasticamente: scene idilliache in campagna e in città si alternano a rovine in fiamme; contadini, studentesse e bambini che giocano al girotondo a soldati e alti graduati degli occupanti; scolari adulti che felici, in un affascinante scenario bucolico, imparano la differenza tra i lemmi ebraici e arabi di “libertà”, “pace”, “terra” e un attimo dopo, ammassi di cadaveri per strada, ostaggi tenuti al muro dall’esercito. Lo straniamento iniziale del vedere immagini di momenti di pace a cui non siamo abituati – la maggior parte dei viventi non ha mai vissuto parallelamente a una Palestina senza conflitto o occupazione, viene capovolta di centottanta gradi mano a mano che la violenza si fa più palese. L’effetto che ne deriva è un’idiosincrasia, una quasi repulsione per queste immagini dalla relazione idealmente incomprensibile ma che alla luce di una storia ben nota, hanno anche troppo senso. Ed è qui che l’autore decide di mettere mano, letteralmente, alle immagini: vengono coperti (e non censurati, è importante la differenza) volti, silhouette in movimento, intere didascalie – talmente tante da rendere problematica la visione delle immagini sottostanti -, o il riflesso del mare, l’acqua stessa, tutto diventa rosso, a volte spento e trasparente come attraverso una lente, a volte opaco e vivo come il sangue. Inutile cercare di capire oltre, questo è. Non possiamo sapere cosa c’è sotto, magari non è nemmeno importante in senso stretto, ma è qualcosa che non dovrebbe esserci, che una Storia sbagliata ha messo lì. È così che il film, che presenta anche elementi della videoarte, diventa una toccante esplorazione di identità, memoria e resistenza, in una testimonianza unica di come tecniche documentaristiche e sperimentali, e soprattutto la ricerca e lo studio del materiale d’archivio possono portare a un’opera miliare.
«Questo film non tratta del passato», dichiara Aljafari «ma di un futuro che può ancora essere plasmato. È un’opera che può iniziare solo posizionando uno specchio davanti agli archivi coloniali. Sto sabotando lo sguardo coloniale. Cosa possiamo vedere, percepire e forse comprendere grazie ai materiali d’archivio trovati presso istituzioni israeliane, che hanno instancabilmente documentato tutto ciò che era possibile in questo Paese e che è stato ridotto in pezzi anno dopo anno? In ogni campo, ciò che noi palestinesi vogliamo è riappropriazione, della terra e delle immagini. Questo è ciò che ho fatto in A Fidai Film, e il contro-archivio che ne è nato è ciò che definisco “la macchina fotografica dei diseredati”. È un tentativo di resistere a questo divieto di auto-rappresentazione.» Una violenza, quella israeliana sull’archivio e sulla storia palestinese, che nelle parole del regista assume lo stesso peso della violenza fisica, di un’appropriazione di potere sul corpo e le vite di persone altre, e questa sua opera un manifesto di pace, una vendetta di memoria. Come se quel bambino palestinese in lacrime a cui il militare ruba la palla e che spinge via a bastonate, potesse finalmente avere giustizia.
Federico Benuzzi
