Martedì 15 aprile, alle ore 22, come di consueto al Cinema Beltrade di Milano, sarà il momento di due anteprime italiane portate finalmente sul grande schermo grazie alla rassegna Indocili. Il quinto appuntamento di questa quarta stagione – un po’ come nello scorso, per fare un parallelo anche tra diverse giornate – ci mostrerà due mondi apparentemente molto diversi.
Il programma prevede, infatti, un cortometraggio di finzione ambientato nel bellunese alla fine degli anni ‘90, Il compleanno di Enrico di Francesco Sossai, e un lungo documentario girato a Catania, Tutto a posto gioia mia di Chloé Lecci Lopèz. Lontane, dunque, non solo per la distanza fisica tra loro, ma anche per gli anni nei quali sono ambientate, le due opere hanno, però, dei punti di contatto che aderiscono tra loro, aderenza che finisce col premere sullo spettatore.
Ne Il compleanno di Enrico, Lucio sta accompagnando suo figlio Francesco alla festa di compleanno di un coetaneo. Dall’autoradio sentiamo i conduttori di una trasmissione parlare del Millennium Bug, di cui il ragazzino ha timore. Il padre lo rincuora a modo suo, così come lo rimprovera poco dopo per la richiesta, come regalo, di un giocattolo, a suo dire, per bambini. Arrivato a destinazione, il piccolo viene accolto dalla madre di Enrico e dalla nonna, una signora costretta immobile a una sedia e capace di emettere solo un sibilo simile a un rantolo, e il cui sguardo rapisce per un attimo il piccolo. Introdotto al gruppo di festeggianti, appena questi lo vedono si fermano, ammutoliti. I giochi riprendono come niente, la festa continua spensierata fino a che un altro incontro con la nonna di Enrico finisce in modo inatteso. Il pomeriggio di Francesco, e non solo, subirà una brusca sterzata.
Vero e proprio corto-mondo che si ispira a un’esperienza vissuta dallo stesso Sossai, Il compleanno di Enrico è una finestra su un passato all’apparenza lontano, esteticamente e non solo – a tal proposito va sottolineato l’affascinante e preciso utilizzo della pellicola -, ma nel quale ritroviamo tante delle storpiature che oggi, forse, sono ancora più accentuate nei rapporti familiari. Questo piccolo ritratto porta con sé un campionario di spunti di riflessione, partendo dal protagonista e il rapporto con il padre, le cui risposte non possono non polarizzare l’attenzione e ricordarci noi stessi da piccoli, la rabbia e il senso di impotenza, e noi stessi a confronto con i genitori che vorremmo essere; c’è poi il rapporto con i coetanei, fatto di scoperte, di odio, invidia ed emulazione – come il tentativo di arricciarsi, e forse allungarsi, il codino dietro la nuca, che tanto andava a fine anni ‘90, quasi a voler assomigliare al festeggiato – ; c’è la riflessione sullo sguardo bambino verso l’ambiente circostante, sempre più reale ma ancora vibrante di magia, di sospensione, di sogno e incubo; c’è la dimensione del ricordo, la memoria che come la grana grossa della pellicola mantiene impressa ma nel tempo stesso in cui accade sfuoca, mescola, distorce. Ci sono poi le riflessioni sull’epoca specifica, tanto lontana quanto vicina, soprattutto nella questione femminile, rappresentata dal rapporto dei genitori di Enrico e dall’onnipresente madre, che si fa carico di ogni frazione della vita familiare, che sia la festa dei bambini, che siano gli anziani, che sia anche il regolare i rapporti tra figlio e padre (bè, non dici grazie a tuo papà), o meglio tra figlio naturale e figlio acquisito, mai cresciuto; in conclusione, il rapporto con gli anziani e le loro figure, che della visione romantica figlia del Novecento non mantengono più nulla, se non di essere un ponte con altri universi. Un cortometraggio dalle note lynchiane – le inquadrature dell’arrivo in automobile non possono non far pensare a Twin Peaks, così come il personaggio dell’anziana nonna, soprattutto nella sua sequenza finale – e dalle idee chiare, che mostra capacità di direzione degli attori e di dipingere immagini e immaginari invidiabili.
Tutto a posto gioia mia esplora, invece, l’universo familiare sfaccettato della regista durante un’estate in cui lei, parigina ma di discendenze italiane e spagnole, torna per un’estate nell’orbita della famiglia paterna, a Catania. Il padre è fisicamente assente, ma mai disprezzato o giudicato, per via della reclusione dovuta a fatti non ben chiariti, ma declinati su schermo soltanto con termini riduttivi.
E in effetti forse, non sono importanti, quello che importa è appunto l’assenza materica e la presenza spirituale, vocale, fluttuante e impalpabile ma onnipresente, come quella di un fantasma che percepiamo anche al buio, come i neri che fanno da sfondo alle telefonate dal e per il carcere. A dialogare con lei in carne e ossa, resta dunque la nonna, che come spesso accade in immaginari simili sembra tenere uniti i vari fili del passato e del presente della famiglia, oltre che le redini della situazione; c’è anche un vecchio datore di lavoro del padre, che percepiamo come presenza solo uditiva – anche lui quasi spettrale, da un’altra epoca e, visti anche i valori, da un altro mondo -, che contestualizza e descrive la storia del grande assente, motivo ultimo forse per cui esiste questa pellicola. Parallelamente, la regista instaura un dialogo con un diciottenne catanese che, tra goffi tentativi di risultare avvenente agli occhi della telecamera e qualche luogo comune e semplicismo dialettico e riflessivo, esprime chiaramente il disagio di chi si trova in quel luogo, in quel momento, i perché di chi, spinto dal contesto e da una narrazione popolare che si alimenta di sé stessa e che non ammette eccezioni oltre che forse tentativi di smentita, a delinquere. Un dipinto della realtà che, portando immediatamente a sovrapporla con l’epoca del padre, non può che far pensare a quanto poco sia cambiata la situazione in quell’angolo colpevolmente dimenticato e abbandonato – se non appunto quando c’è da giocare con gli stereotipi o da prenotare le vacanze – d’Italia. Il film può risultare forse acerbo e non completamente rotondo, mancano alcuni colpi di scalpello per avere una forma perfetta, soprattutto nella parte che prometteva di andare più in profondità nell’intreccio tra le questioni private e quelle pubbliche – peccato non aver sentito più voci del contemporaneo, in quello che sembra partire come un nuovo “Comizi d’amore” – passate e presenti -, anche qui interessante l’uso del materiale d’archivio, che poteva però avere più risonanza, venendo potenzialmente meno affastellato con il resto dell’opera -; tutti aspetti che si possono facilmente perdonare alla giovane regista, guardando con rispetto a un’opera nell’insieme onesta, complessa, personale, emotiva, fresca, sicuramente da vedere.
Due opere dunque, quelle selezionate per Indocili e che – dopo essere passate in alcuni dei più importanti festival – verranno mostrate martedì 15 aprile al Beltrade, che raccontano dell’infanzia e dei punti di svolta della vita, di padri e anziane nonne, di ricordi e di crescita o, per tentare una sintesi estrema, dei rapporti umani, di ciò che ci lasciano e che si portano via.
L’evento, come sempre organizzato dell’associazione Tafano, sarà in collaborazione con Incompetenti Podcast – specializzato in cinema indipendente – e vedrà la speciale partecipazione di Cristina Resa – firma di tante testate e newsletter femministe -. Un altro appuntamento da non perdere per chi apprezza il cinema, l’arte e la politica.
Federico Benuzzi
