Mercoledì 27 agosto avrà ufficialmente inizio l’82esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica della Biennale di Venezia. Sin dal 22 luglio, giorno in cui si è tenuta la presentazione della manifestazione, le aspettative per questa infornata di pellicole sono molto alte. Verrebbe da dire – riferendosi al concorso principale – “finalmente”, visti (almeno) gli ultimi due anni dove i titoli non sono stati all’altezza della manifestazione. Non è solo una questione di nomi, che chiaramente compongono una fetta cospicua del friccicore che alimenta l’attesa, ma anche e soprattutto un fatto di qualità finale delle opere. Chi non è un frequentatore saltuario della sala cinematografica e ha abbastanza curiosità e coraggio per buttarsi ogni tanto in una visione “scomoda” o insolita, sa che il punto non è quello del pedigree autoriale: non ci sarebbe niente di male (se non per l’ufficio marketing) nell’avere un festival composto solo da opere di sconosciuti, che però si rivelano essere tutti film quantomeno interessanti. Non è questo il caso dell’edizione 2025 dove, a parte pochi nomi non tra i più noti, si possono trovare importanti ritorni e illustri prime volte; laddove il pacchetto manca di notorietà, le opere sembrano all’apparenza richiamare attenzione, coinvolgere, far venir voglia di lottare con Vivaticket per prenotare un posto in sala.

Apre La Grazia di Paolo Sorrentino, che non aveva mai fatto passare così poco tempo dall’uscita di suoi due film (Parthenope andò a Cannes nel 2024 e uscì l’ottobre dello stesso anno), e che ritorna alla Biennale dopo il successo di È stata la mano di Dio nel ’21. Non si sa quasi niente del contenuto, mentre dei “dintorni”, a parte il tanto sbandierato ritorno di Toni Servillo, è nota solo la distribuzione internazionale, accaparrata da Mubi, e che, dopo i suoi due film più napoletani, le riprese si sono svolte a Torino. Sarà comunque una storia legata al capoluogo campano? Un dichiarato omaggio a Napoli è invece il documentario di Gianfranco Rosi Sotto le nuvole, che ha richiesto tre anni di riprese; un ritorno al bianco e nero dopo trentadue anni (l’ultimo era stato Boatmen, nel ’93), mentre il regista è oramai di casa al Lido, dove fu il primo a vincere il Leone D’Oro con un film non di finzione, nel 2013 con Sacro GRA, e dove tre edizioni fa portò anche il suo ultimo lavoro In Viaggio, fuori concorso. Il film vede la collaborazione, per la colonna sonora, di Daniel Blumberg, fresco premio Oscar per The Brutalist.

Sempre di Daniel Blumberg sarà anche la colonna sonora di The Testament of Ann Lee della norvegese Mona Fastvold (co-sceneggiato con Brady Corbet, regista del poco fa citato The Brutalist, nonché del di lei marito), un musical che ricostruisce la storia di una setta religiosa del ‘700, nonché unico film che verrà proiettato in pellicola – 70 mm –. La regista era già stata a Venezia con la sua opera seconda, The World to Come (2020), dramma rurale ottocentesco su due donne sposate che si scoprono attratte l’una dall’altra.

Altra coppia di registi/sceneggiatori è quella che sta dietro alla creazione di Jay Kelly, ovvero Noah Baumbach, alla sua terza mostra in concorso consecutiva da regista, e Greta Gerwig, qui solo nel ruolo di attrice. L’ultima fatica del duo – a parti invertite – era stato Barbie, mentre per l’esponente del mumblecore è il ritorno dopo l’ingiustamente bistrattato White Noise (anch’esso targato Netflix). Nel cast è presente George Clooney che interpreta quello che sembra essere un suo alter-ego alle prese con una crisi d’identità durante un tour promozionale in Italia, dove la maggior parte delle riprese sono avvenute.

Tanti, dicevamo, i nomi di richiamo, a partire dal Frankenstein di Guillermo Del Toro, scuderia Netflix, che dopo l’animazione stop-motion di Pinocchio (2022), altro film caratterizzato dal binomio creatore/creatura, torna con attori in carne e ossa come Oscar Isaac, Jacob Elordi e Mia Goth a dare vita al romanzo immortale di Mary Shelley, con il quale flirtava da quasi un ventennio e i cui richiami tornano spesso nella sua filmografia (già Leone d’Oro per La forma dell’acqua nel 2017 e presidente di Giuria l’anno successivo).

È invece una prima volta al Lido quella di Jim Jarmusch, che porta – strappato a Cannes – Father Mother Sister Brother, film composto da tre episodi ambientati in luoghi sparsi tra Stati Uniti ed Europa che analizza il rapporto tra figli adulti e genitori. Con un cast di richiamo tra cui lo stra-confermato Adam Driver (alla sua terza collaborazione consecutiva con il regista di Akron), Cate Blanchett e Tom Waits, Jarmusch, qui come suo solito anche sceneggiatore, torna alla regia dopo la (quantomeno strana) parentesi con I morti non muoiono, risalente oramai a più di sei anni fa.

Torna Yorgos Lanthimos che, dall’essere stato uno dei pochi lumicini di speranza dell’edizione 2023 del festival con Poor Things! (uno dei Leone d’Oro più facili da prevedere), ha deciso di far uscire un film all’anno, col rischio di mandare in giro opere non riuscitissime come Kinds of Kindness. La speranza è che con Bugonia, remake del film sudcoreano Save the Green Planet del 2003, possa far tesoro delle basi che una fonte così solida come un film già fatto può rivelarsi. C’è – ancora – Emma Stone, oramai alla quarta collaborazione consecutiva col regista greco, c’è – ancora – Jesse Plemons, ed è – ancora – una commedia con toni drammatici, fantascientifica con tinte poliziesche. Speriamo.

A proposito di Corea del Sud, è attesissimo il ritorno di Park Chan-wook con No Other Choice. Tanti i motivi dell’attesa, principalmente due: primo, non lo si vedeva a Venezia da Lady Vendetta, ed era il 2005, e secondo, perché è un autore che difficilmente sbaglia un colpo: basti pensare a Joint Security Area (2000), o ai più recenti Mademoiselle (2016) e Decision to Leave (2023), senza scomodare Oldboy (2003). Tratto dal romanzo horror del ’97 di Donald Westlake “The Ax” (che aveva già avuto una trasposizione cinematografica quasi omonima di Costa-Gavras, sempre venti anni fa), il film è, come l’autore asiatico ci ha abituati, una commedia nera virata al thriller.

Altra trasposizione letteraria è quella che vede adattato il capolavoro di Albert Camus Lo straniero, da parte del francese François Ozon ne L’Étranger. Autore dalla prolificità alleniana (ventiquattro lungometraggi in ventisette anni di carriera), ritorna al bianco e nero dopo Frantz (2016), forse la sua opera meglio riuscita. Pensando a Camus e a Ozon, non li avremmo mai accostati, e forse per questo la curiosità è ancora più alta, nella speranza che le questioni familiari legate all’Algeria che dicono di averlo spinto a prendere in mano il soggetto fungano da spinta positiva e non da ingombro.

Ennesima trasposizione di un libro, questa volta contemporaneo, da parte di un autore francese, sarà Le Mage du Kremlin di Olivier Assayas. La fonte di ispirazione è il romanzo omonimo del professore di politica comparata Giuliano Da Empoli, di gran successo e ricoperto di riconoscimenti oltralpe, dove il professore insegna, all’Istituto di studi politici di Parigi. Il volume racconta dell’inarrestabile ascesa al potere di Vladimir Putin (interpretato da Jude Law) attraverso il racconto di un suo collaboratore segreto (Paul Dano). Anche in questo caso, leggendo l’accostamento con Assayas, che ci ha abituati a una filmografia rapsodica sempre più tendente alla commedia drammatica parlata, non avremmo pensato a un buon partito per questo soggetto, politicamente coinvolto e puntuale. La garanzia è forse la sceneggiatura scritta a quattro mani con quell’Emmanuel Carrère che, oltre a essere uno che in linea di massima è in grado di battere dita su una tastiera, è anche un esperto russofilo, come già dimostrato a più riprese nella sua carriera, fino al suo folgorante Limonov.

Spostandoci dall’altra parte dell’oceano, non si può non incasellare tra i film attesi The Smashing Machine di Benny Safdie, di cui circola il trailer oramai da diverso tempo, con un Dwayne Johnson tutto sorrisi, sudore e parrucchini. “The Rock” indosserà i panni di un campione di wrestling degli anni ’90, soprannominato appunto come la macchina squassante del titolo, e sia mai che finalmente, nelle fila di un film più artsy rispetto a quelli a cui ci ha abituati, non venga infine preso in considerazione per quel premio Oscar che sicuramente tanto agogna (e a giudicare da quante volte venga invitato a presentare, è un sogno ricambiato). Riuscirà il Safdie Benny, dopo il divorzio dal fratello Josh (che intanto a breve farà uscire Marty Supreme, con l’altro attore peso massimo Timothée Chalamet su un altro campione di un altro sport poco frequentato: il ping pong), a rimanere sulla china dei loro film precedenti come Good Time (2017) o Uncut Gems (2019)?

Sempre da oltreoceano, e dal 2018 nel quale ci aveva lasciati con Detroit, ritorna Kathryn Bygelow con A House of Dynamite. La regista statunitense, che oramai da The Hurt Locker e Zero Dark Thirty ci ha abituati agli esplosivi, si è detta ispirata dalla sua paura per il clima di tensione da guerra fredda risvegliatosi negli ultimi anni. Ma soprattutto è il fatto che non se ne parli, che l’arsenale atomico giaccia tra il torpore generale, come se non esistesse una vera minaccia, che ha messo urgenza all’autrice per la realizzazione di quest’opera, politicamente coinvolta, puntuale e, speriamo, di rilievo.

A proposito di coinvolgimento politico, puntualità e rilevanza, particolare posizione è occupata da The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania. Questa collaborazione franco-tunisina riporta alla Mostra la regista nordafricana, la cui opera precedente L’uomo che vendette la sua pelle era stata selezionata in Orizzonti, oltre a essere stato il primo film tunisino ad arrivare alla cinquina Oscar per il miglior film internazionale. Ma al di là delle frivolezze, la storia raccontata è sicuramente il fulcro di questa produzione: il film è basato su un fatto di cronaca avvenuto nel gennaio del ’24, nel quale una bambina di sei anni è sola in una macchina, unica sopravvissuta al suo interno dopo un attacco dell’esercito israeliano a Gaza. Chiama la Mezzaluna Rossa per essere soccorsa e, mentre cercano di mantenerla in linea, tentano di far arrivare un’ambulanza: le registrazioni di queste telefonate sono state usate nel film. Sicuramente uno dei più attesi, se non altro per l’urgenza dell’istanza che porta nella kermesse.

Altri in concorso sono: À Pied D’Oeuvre di Valérie Donzelli, una storia contemporanea e delicata su un fotografo che decide di lasciare il suo lavoro affermato per inseguire il sogno di diventare uno scrittore, venendo però a contatto con la dura realtà contro cui spesso i sogni si infrangono; Orphan di László Nemes, che torna alla regia dopo quel Tramonto del 2018 portato proprio a Venezia e che non era stato per niente all’altezza delle aspettative create dal suo folgorante esordio del 2015 Il figlio di Saul, che gli valse una valanga di premi, plauso della critica e l’Oscar internazionale. Nemes si lascia alle spalle un po’ della sua cifra stilistica e si concentra più sul proprio vissuto familiare, trattando della vita del padre. The Sun Rises on Us All di Cai Shangjiun, nel cast due stelle del cinema cinese come Xin Zhilei e Zhang Songwen, è un dramma che parla di morale, sacrificio, fedeltà e redenzione all’interno del contesto di una storia d’amore che copre molti anni. Silent Friend di Ildikó Enyedi, regista ungherese che in quarant’anni di carriera ha girato solo nove film, porta al Lido un’opera in tre episodi ambientati in epoche diverse – inizio Novecento, anni ’70 e 2020 – il cui sfondo è il giardino botanico di una città medievale tedesca, nel quale campeggia l’amico silente del titolo: un enorme ginkgo biloba millenario, nonché vero protagonista della pellicola. Intento infatti è quello di mostrare altri mondi che non siano quello percepibile dagli occhi umani. Nühai (Girl) di Shu Qi, da Taipei, una delle più grandi attrici del cinema asiatico porta la sua opera prima da regista: la storia di un’adolescente che vede i suoi sogni, spezzati e repressi dalla madre, incarnarsi in una ragazza molto simile a lei. Un dramma artistico, ci fa sapere la regista, sulla quale hanno un peso i trent’anni di lavoro impiegati nel raccontare storie.

Ultimi ma non ultimi, il terzo, il quarto e il quinto film italiani in concorso, dopo i due con cui abbiamo aperto: Elisa, di Leonardo Di Costanzo, che riparte dopo Ariaferma sempre da Venezia e sempre con una storia ambientata in carcere, stavolta ispirato dal libro di Ceretti e Natali Io volevo ucciderla, nel quale il criminologo cercherà di far uscire la verità di una detenuta accusata di aver ucciso e dato fuoco alla sorella, senza aver mai confessato il delitto; Un film fatto per Bene di Franco Maresco, gradito (ma forse non per lui) ritorno alla Mostra del Cinema, dove all’ultima battuta, nel 2019, aveva portato a casa il Premio speciale della giuria per La mafia non è più quella di una volta. L’intellettuale siciliano torna alla regia con un film fatto a modo suo, partendo dall’espediente di girare un film su Carmelo Bene, ma che in realtà diventa un modo per riflettere delle proprie ossessioni, frustrazioni sul non riuscire mai a finire un film (che lui chiama trappole autolesionistiche). Maresco sarà presente anche Fuori Concorso con il corto (o lungo mai terminato) Goffredo felicissimo?, sull’altra figura ammirevole, da poco scomparsa, di Goffredo Fofi; infine, da un gigante del teatro all’altra, Duse di Pietro Marcello. Dopo il flop – perlomeno di box office – che fu Le vele scarlatte, passato alla Quinzane a Cannes, si ritorna dove si è stati bene, ovvero dove Marcello portò nel 2019 Martin Eden, successo, si può dire, mondiale, che fece vincere una Coppa Volpi (e notevole notorietà) a Luca Marinelli. Questa volta l’autore campano si concentra sugli ultimi anni di Eleonora Duse che, vittima di povertà, decise di ritirare il suo addio dalle scene e ritornare a calcare il legno dei palchi: speriamo, e scommettiamo, non sarà un biopic come siamo abituati a vederne.

Di grande interesse anche le sezioni parallele, che spesso nascondono vere e proprie perle. In anticipo ci sentiamo di segnalare, nel Fuori Concorso, Il Maestro di Andrea Di Stefano (di nuovo con Favino dopo L’ultima notte di Amore, 2023); il thriller con Julia Roberts After the Hunt di Luca Guadagnino, che, anche lui raggiunta oramai la media di un film all’anno, si dice abbia espressamente chiesto di non partecipare al concorso (forse seccato dalla bocca asciutta di Queer della scorsa edizione?); Scarlet di Mamoru Hosoda, animazione giapponese tra il medievale e il contemporaneo a tema odio, conflitto e ricerca di un senso dell’esistenza; L’ultimo vichingo di Anders Thomas Jensen, commedia nera danese con Mads Mikkelsen; il thriller Dead Man’s Wire del grande Gus Van Sant, storia vera di vendetta personale contro le lobby statunitensi; Ghost Elephants di un altro maestro, quel Werner Herzog che riceverà il Leone alla carriera, la ricerca mobydickiana di un gruppo di elefanti sfuggenti in Angola da parte di un ricercatore, tra sogno e realtà, scienza e etica; Nuestra Tierra della fu presidentessa di giuria Lucrecia Martel (vi ricordate le polemiche sul caso Polanski?), racconta l’omicidio di un leader di una comunità indigena da parte di sfruttatori terrieri; il documentario Cover-up di Laura Poitras – Leone d’Oro clamoroso nel 2022 con All the Beauty and the Bloodshed – e Mark Obenhaus: thriller politico e ritratto dell’instancabile giornalista investigativo premio Pulitzer Seymour Hersh, è un’accusa contro la violenza istituzionale delle intelligence; per ultimo, altro documentario Kim Novak’s Vertigo di Alexandre O. Philippe, ritratto della diva hollywoodiana protagonista tra gli altri de La donna che visse due volte di Hitchcock, anche lei premiata con il Leone alla carriera durante questa edizione. “Piccolo” bonus, il documentario di cinque ore di Aleksandr Sokurov Il taccuino del regista, in cui letteratura e cinema si fondono in un unico flusso per raccontare la seconda parte del Novecento e il suo cambiamento: il vecchio mondo che cambia tra le pagine dei ricordi di un grande cineasta.

Di grande interesse anche la categoria Orizzonti – dedicata a esordi, autori emergenti o giovani (ma a volte ci capita un Lav Diaz, non si sa perché) –, che comprende 19 lungometraggi in concorso dei quali teniamo a segnalare: Il rapimento di Arabella, di Carolina Cavalli (Amanda, 2022); Harà Watan di Akio Fujimoto; Rose of Nevada di Mark Jenkin; Pin de Fartie di Alejo Moguillansky (prodotto dalla Laura Citarella di Trenque Lauquen), Un anno di scuola di Laura Samani (Piccolo corpo, 2021).

Da non dimenticare anche le altre sezioni, tutte notevoli per selezione e diversità di offerta: Venezia Spotlight (la fu Orizzonti Extra, nel quale tra gli altri è presente l’ultimo lavoro di Daniele Vicari, Ammazzare stanca), Venezia Classici (18 restauri in concorso, un fuori concorso e 9 documentari in prima mondiale, tra i quali segnaliamo Holofiction di Michal Kosakowski, che sarà anche in concorso ad Archivio Aperto, a Bologna dal 26 al 30 settembre), Biennale Cinema College (con i suoi 4 esordi finanziati dalla stessa Biennale) e Venice Immersive (immensa sezione dedicata alla realtà virtuale, sulla quale il festival investe sempre più risorse, anche solo considerando i numeri dell’offerta).

In chiusura, le due sezioni autonome (tra le preferite da chi vi scrive, perché spesso scrigni di alcune delle visioni più piacevoli e sorprendenti dell’intera manifestazione): la Settimana Internazionale della Critica (SIC), giunta alla 40° edizione organizzata dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, e le Giornate degli autori – 22° edizione – promossa dalle associazioni dei registi e degli autori cinematografici italiani (ANAC) e 100autori. La SIC presenta sette lungometraggi – esclusivamente opere prime – in concorso (a cui vanno aggiunte tre proiezioni speciali fuori concorso) e sette corti (più apertura e chiusura, che quest’anno sarà Confini, canti di Simone Massi). Tra i lunghi, tutti curiosi, da segnalare Dall’Algeria Roqia di Yanis Koussim, un horror sulla perdita della memoria, e Straight Circle di Oscar Hudson, opera surreale su potere, confini e identità con tratti di Becket, Lynch e Tatì. Le Giornate contano invece 10 lungometraggi in programma e un’altra decina tra eventi speciali e mini sezioni fuori concorso, tra i quali ci sentiamo di consigliare Anoche conquisté Tebas di Gabriel Azorín, film iberico su un gruppo di amici, l’intimità e la vulnerabilità maschile, e Memory di Vladlena Sandu, sull’infanzia attraversata dalla guerra, dalla Crimea alla Cecenia. Sarà un lavoro complesso per le varie giurie, ci auguriamo onesto e con meno dietrologie e tifoserie possibili, così come ci auguriamo che aspettative di qualità vengano mantenute.

P.S.: Piccola parentesi extra cinema: riteniamo importante parlare della manifestazione, promossa dai Centri Sociali del Nord Est e ANPI7Martiri Venezia, che si terrà il 30 agosto, dal titolo STOP AL GENOCIDIO – PALESTINA LIBERA!, per sfruttare la risonanza che la Mostra porta al Lido al fine di puntare i riflettori su quanto sta accadendo a Gaza.

Federico Benuzzi