La Grazia, di Paolo Sorrentino (Italia) con Toni Servillo, Anna Ferzetti
Concorso ufficiale – film di apertura

Sono gli ultimi sei mesi di mandato del Presidente della Repubblica Mariano De Santis (Toni Servillo), soprannominato dai suoi amici e collaboratori “cemento armato” per la concretezza e stabilità di pensiero e di azione, dimostrata nelle numerose crisi di Governo affrontate. Rimangono le ultime faccende da sbrigare: due richieste di grazia, per un professore di liceo che ha ucciso la moglie affetta da Alzheimer e una donna che ha ucciso il marito nel sonno dopo anni di violenze, e una legge sull’eutanasia che da mesi viene corretta e rimandata al mittente. Ma queste particolari pratiche portano il Presidente, oramai privo di passione, a rivivere il suo passato a cui è molto legato, nella fattispecie a ricordare la moglie scomparsa anni prima e che ha lasciato il vuoto nella vita del politico. A portare avanti il lavoro ci pensa la figlia Dorotea (Anna Ferzetti), giurista anch’ella, che tenta di mantenere accesa la fiamma del vecchio professore di diritto.
Sorrentino torna in concorso a Venezia a quattro anni di distanza dal suo film più biografico e personale È stata la mano di Dio (2021), che si era portato a casa il Gran premio della giuria, e a solo un anno di distanza da quel Parthenope che è sì stato il maggior incasso del regista campano, ma anche una deviazione, narrativamente parlando, rispetto a quello che oramai viene riconosciuto come il suo canone autoriale. Sin dalle prime immagini – e dialoghi – de La Grazia, è subito chiaro che Sorrentino è tornato sul suo campo di gioco. Al di là del ritorno di Servillo, dialoghi, tematiche, ironia, sorprese, profondità e giochi di specchi ci riportano più lontani nella sua filmografia.
Il protagonista è un vecchio giurista, ex professore, uomo grigio, fermo (non ti muovi, giochi solo di rimessa), cattolico e democristiano, una di quelle persone che dall’esterno non sembrano nemmeno umane e di cui ci chiediamo che cosa abbiano dentro, se provino qualcosa. Sorrentino si infila in questo intercapedine e ci mostra la sua visione di quello che non saremmo mai in grado di vedere, un’operazione simile a quella costruita con Il Divo (ma lì il pubblico e il privato non si discostavano, per questioni di biografia). In questo caso invece l’umano c’è, e combacia con la storia d’amore quarantennale avuta con la moglie Aurora, scomparsa otto anni prima. Da allora De Santis non esiste più (“Aurora, io quando ricordo muoio” e “La mia libertà si chiamava Aurora”), va avanti per inerzia, sospinto dalla figlia piena di passione, che cerca di infondergli, dai funzionari del governo e dagli assistenti, che lo rimbalzano da una faccenda all’altra. È un film di gabbie: la carica è oramai una gabbia per il Presidente, così come lo è la vita anziana e solitaria (“che me ne faccio ora della libertà”), il non sapere con chi e perché quarant’anni prima la moglie lo ha tradito, l’avere il peso del mondo addosso e non il tempo per i propri figli; è una gabbia quella dell’astronauta che in orbita e solo da mesi attende un collegamento col Presidente; è una gabbia il carcere per tutti, forse di più per chi non aveva altra scelta; è una gabbia il quotidiano per chi non ha mai amato e non ha tempo e libertà per respirare, come Dorotea; sono una gabbia il diritto e le leggi, che non permettono casi particolari e la contemplazione dell’umano. Ed è, inevitabilmente, un film sulla fine, presente in ogni inquadratura: la legge sull’eutanasia, il termine del mandato – e non solo – per il Presidente, l’amata moglie, il cavallo Elvis lasciato ad agonizzare. Inutile dire che è anche un’opera tenerissima e poetica, una storia d’amore con qualcuno che non vediamo, sulla memoria e il ricordo e l’inevitabile importanza che questo ha, quando il tuo futuro è ormai alle spalle: “Parliamo di te. La prima volta che ti ho vista ho pensato: è immortale”, sentiamo dire dal pensiero del presidente, ricordando l’amata moglie con cui dialoga nella propria testa. Un film sull’empatia, sui “panni degli altri”, capace di attraversare lo spazio sotto forma di una lacrima, che il protagonista sembra toccare, percependo così il dolore umano e uscendo dall’apatia. Ed è, infine, anche un inno alla libertà e alla leggerezza, anche se risulta strano che questo inno sia cantato da Gué, presente con le sue note per tutto il film, oltre che in un divertente e inatteso cameo, e al sovvertire le proprie regole etiche: “a chi appartengono i nostri giorni?” chiede Dorotea a suo padre, parlando della legge epocale di cui continua a rimandare la firma. Ed è quella semplice domanda che comincia a smuovere “cemento armato” e tutto ciò in cui crede.
Arkoudotrypa (Bearcave) di Stergios Dinopoulos, Krysianna B. Papadakis (Grecia) con Hara Kyriazi, Pamela Oikonomaki
Giornate degli autori – Concorso

In un paesino sulle montagne greche, Argyro (Hara Kyriazi) e Anneta (Pamela Oikonomaki) sono una giovane coppia di amiche. Allevatrice e coi piedi per terra la prima, estetista, sognatrice e popolare la seconda, il loro equilibrio si rompe quando Anneta confessa di essere incinta. Il suo ragazzo, un poliziotto rozzo e con complesso edipico, l’ha convinta a trasferirsi nella cittadina più grande, a casa della madre ossessionata dalla progenie. Durante la passeggiata rivelatoria, Argyro sfida l’amica a trovare la leggendaria grotta dell’orso. Le due però discutono per la decisione presa da Anneta e Argyro si addentra da sola, intravedendo all’interno della grotta qualcosa di strano, prima che l’amica, ritornata per la preoccupazione, non la distolga da quella visione. La sera, a una festa, il rapporto tra le due cambierà per sempre.
Primo lungometraggio della coppia di registi, basato sul soggetto del loro ultimo corto, unisce diversi registri e generi, passando dal dramma al romantico, sfiorando suggestioni horror in alcune inquadrature e temi musicali, cambiando più volte formato, per raccontare una storia di amicizia e di presa di coscienza. Due amiche intime capiscono di provare sentimenti più profondi l’una per l’altra solo quando una di loro se ne va (o quando una di loro intravede l’avvenire in una grotta), inseguendo il canone, il “giusto”, il sogno della promessa che un giorno potrai splendere partendo dalla “normalità”. Ma si accorge presto che la favola non esiste, che il principe non è quello che sembrava e la vita a volte va ascoltata. Meglio dunque crescere un figlio dove ci si sente al sicuro, con qualcuno che si ama, dove si vuole, anche se questo significa vivere in mezzo all’odio, contro tutto e tutti. La storia, anche se semplice, viene impreziosita di tanti buoni propositi stilistici e non, che alla lunga sembrano rendere il timone della nave difficile da governare, rischiando di far perdere aderenza al racconto e mettendo confusione sulle scelte effettuate. Ma alla fine, forse, basta lasciarsi andare e godere delle inquadrature lontane, innocue, scevre da pregiudizi delle protagoniste che giocano nell’acqua o che scalano un colle, per far sembrare tutto in ordine, tutto giusto, tutto finalmente in pace.
Orphan, di László Nemes (Ungheria, Regno Unito, Germania, Francia) con Bojtorján Barábas, Andrea Waskovics
Concorso ufficiale

Ungheria, 1949. Un bambino, Andor (Bojtorján Barábas), torna dalla propria madre (Andrea Waskovics) – ebrea – mentre il padre, da lei amatissimo, è rimasto disperso durante il secondo conflitto mondiale.
Otto anni dopo, il bambino prega tutti i giorni che il padre torni, riferendosi a un’enorme cisterna d’acqua nello scantinato come se fosse lui. Ma alla porta si presenta un altro uomo (Grégory Gadebois), un macellaio di campagna enorme e burbero che anni prima aveva tenuto nascosta sua madre durante la guerra. È tornato per ricongiungersi con loro e rifarsi una nuova famiglia, dopo che quella vecchia è apparentemente partita per l’America. Nel frattempo, l’amichetta Sari nasconde il fratello, ricercato dalla polizia e dalla dittatura.
László Nemes torna dietro la macchina da presa a dieci anni esatti dalla sua opera prima Il figlio di Saul, un vero e proprio caso cinematografico che riuscì non solo a vincere il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes, ma anche Golden Globe e Oscar al miglior film internazionale. Un esordio folgorante, che non ebbe – comprensibilmente – il seguito sperato tre anni dopo con Tramonto, stavolta in concorso a Venezia. Il Direttore Alberto Barbera ha presentato Orphan come un film nel quale il regista ungherese avesse parzialmente abbandonato la propria cifra stilistica (visibilissima in Saul, costituito quasi esclusivamente dal primo piano del protagonista che si muove in un campo di concentramento), mentre anche lo stesso Nemes ha dichiarato di aver “creato un linguaggio cinematografico che permettesse allo spettatore di rivivere l’esperienza traumatica di un bambino, intrappolato tra […] un mondo minaccioso e un triangolo familiare che non riesce a comprendere”. Ispirato alla storia del padre e della famiglia del regista “che ha attraversato le devastazioni dell’Olocausto e la tirannia del regime comunista”, nonostante questo la pellicola risulta studiata, eccessivamente geometrica, pulita, quasi asettica. La sceneggiatura è spesso, soprattutto nella prima parte, ripetitiva – oltre che, forse, mancante di contesto, per cui alcune scelte o comportamenti dei personaggi risultano incomprensibili – e in diverse scene la narrazione va avanti su una gamba sola, la storia fatica a svilupparsi e lo spettatore, invece che “vivere il trauma”, ha più probabilità di distaccarsi dallo strato emotivo che il regista vorrebbe si sentisse. Sembra da insensibili da scrivere, visto il contesto in cui si muove il film, ma è solo con la maggiore presenza in scena del personaggio interpretato dall’eccellente Grégory Gadebois che entriamo in un mondo davvero oscuro, facendoci vivere il disagio del piccolo Andor, che da figlio di un eroe, di una persona amata e perbene, si scopre invece figlio di un mostro, forzato ad accettarsi per qualcosa che non vorrebbe essere (nella sbagliatissima narrazione novecentesca per la quale tu sei i tuoi genitori). Ma anche qui le risposte alle azioni del macellaio sembrano fuori misura (come la totale immobilità della madre, sì vittima, ma talmente ferma da risultare disinteressata al figlio, incapace anche solo di parlargli), tanto da apparire, anche in questo caso più che per mancanza di contesto, in un’eccessiva macchinazione dei personaggi per fini di trama. Il cambio di stile risulta dunque in un’approssimazione al ribasso, laddove Il figlio di Saul era invece sì un’idea tecnicamente geniale, ma altrettanto geometrica e studiata, che dentro il bel e nuovo contenitore nascondeva la stessa mancanza di “anima”. Forse Nemes ha bisogno di distaccarsi dai racconti familiari per trovare sé stesso e la propria voce?
Ghost Elephants, di Werner Herzog (USA)
Fuori concorso

Allo Smithsonian di Washington, USA, sono conservati i resti del più grande elefante mai visto, Henry, ucciso in una battuta di caccia nel 1955. Sono dieci anni che il Dr. Steve Boyes va alla ricerca di un branco di elefanti fantasma che sembra abitare un altopiano boscoso e paludoso – grande come l’Inghilterra – in Angola, chiamato la Fonte della Vita. Viene assemblato un gruppo di trackers, cacciatori e antropologi che dalla Namibia risale verso il luogo destinato alle ricerche, inseguendo le tracce di quelli che sembrano essere i discendenti di Henry: gli elefanti più grandi del mondo. L’ultimo lavoro del maestro tedesco, che ha ricevuto ieri il Leone d’Oro alla carriera, è un documentario ambientato quasi esclusivamente nel continente africano, che dà più spazio alla componente umana della spedizione che alla ricerca scientifica. In tutta la prima ora viene mostrato chi comporrà la squadra che andrà alla ricerca del branco di elefanti, con particolare attenzione per i componenti namibiani, i migliori – e gli ultimi rimasti – tra i trackers capaci di riconoscere tracce animali nel loro habitat, e per il Dr. Boyes e la sua ossessione. Quello che rende davvero speciali questi elefanti, a parte il loro habitat inusuale e la loro stazza, forse più imponente della media, è il fatto che siano sfuggenti, che nessuno li abbia mai visti o abbia raccolto testimonianze della loro esistenza. Comprensibile quindi il parallelo dichiarato da Herzog con Moby Dick: questi elefanti esisteranno davvero o sono solo frutto della fantasia? Ed è anche giusta la domanda che il maestro si pone, se sia corretto lasciarli nei sogni o vederli davvero. Il Dr. Boyes a questa domanda risponde che forse preferirebbe non trovarli, che non esistessero, così da poter continuare la ricerca all’infinito. Ed è forse questo dunque il vero sogno del ricercatore: uno scopo da inseguire, un fantasma perpetuo da cui essere perseguitato, e non la scoperta.
Il discorso etico sull’animale elefante, sugli animali in generale, sulla scelta se sia giusto lasciarli nell’oblio o perseguire la ricerca scientifica a ogni costo (e con ogni mezzo) viene presto messo da parte, lasciando in realtà un velo di ignavia sulla questione. Certo, la ricerca non viene più compiuta a mezzo caccia grossa come accaduto con Henry – vediamo delle immagini agghiaccianti provenienti dal film italiano del 1966 Africa Addio, nelle quali tre esemplari vengono inseguiti in elicottero e abbattuti con fucili -, e le uniche armi sono tamponi, frecce senza punta e macchine da presa, ma non c’è uno sviluppo reale del discorso. E, ci sentiamo di ampliarlo, non viene fatto lo stesso con le popolazioni africane che vengono riprese: laddove gli elefanti vengono disturbati, invasi, mentre nel frattempo il loro numero è in costante diminuzione, i popoli namibiani e angolani sono lasciati a loro stessi, invasi dai nostri usi e costumi e successivamente abbandonati, senza che sia stato sviluppato un discorso di aiuto etico, per migliorare le loro condizioni (e non si parla di cambiare le loro tradizioni o la cultura, bensì di mantenerle provando a migliorare la loro qualità della vita). Insomma, anche in Ghost Elephants l’Africa, nonostante non si finisca più sulla copertina di Sports Illustrated per aver ucciso un elefante e il comportamento mantenuto sia sempre rispettoso delle persone e delle usanze, sembra ancora un grande parco giochi dove sfogare le proprie ossessioni.
Federico Benuzzi
