À pied d’œuvre (At Work)

di Valérie Donzelli (Francia) con Bastien Bouillon, André Marcon

Concorso ufficiale

Paul (Bastien Bouillon) ha 42 anni, due figli oramai adulti e un lavoro, quello di fotografo, che anche se ben remunerato, non gli appartiene più. Decide così di lasciare, dedicandosi alla scrittura. Dopo qualche anno, Paul ha già scritto tre romanzi apprezzati dalla critica, ma che non gli permettono di sopravvivere. Lascia il suo appartamento per finire in un monolocale in uno scantinato, inizia ad accettare lavori manuali poco pagati per avere comunque il tempo di scrivere quello che sarà il suo quarto libro e che, a detta dell’editrice, deve essere il suo “grande romanzo”. Il film della regista e attrice francese Valérie Donzelli, qui al suo sesto lungometraggio dietro la macchina da presa, parla di un uomo radicale, di cui non ci è dato sapere come mai non riesca più a fotografare, ma sappiamo che vuole scrivere a tutti i costi. Vuole farlo nonostante il parere contrario della sua famiglia, che non appoggia la sua scelta (“perché non ti trovi un lavoro normale”) e lo accusa di “voler giocare al povero”. Ma “i poveri” in Francia ci sono, sono undici milioni e non valgono meno di quelli che si vedono quando si va in vacanza in un luogo esotico. Vuole farlo nonostante il sistema economico e lo stato del lavoro, con poche garanzie e mal retribuito, e contro l’altra faccia della stessa medaglia, ovvero il mondo dell’editoria e quello dell’arte, che non permettono anche a chi già ne fa parte di poter vivere, condannandolo all’eterna precarietà. Paul va contro il menefreghismo e l’ignoranza della società, contro la propria vergogna e il decadimento fisico che tutto il lavoro di manovalanza che fa per sopravvivere gli porta. Vuole farlo perché altrimenti la vita non varrebbe la pena di essere vissuta, probabilmente, arrivando fino alla radice di sé stesso, ai minimi termini e senza più altro a cui appoggiarsi se non sé stesso e gli affetti, che siano stretti come un parente o la semplice gentilezza di una signora appena conosciuta. “Hanno letto i miei libri?”, chiede Paul all’ex moglie quando lei gli comunica che la figlia è preoccupata per la sua instabilità. La risposta è no, perché li mette in imbarazzo. Una domanda da egocentrico, se non fosse che il taciturno Paul non sta cercando complimenti, ma solo di essere capito attraverso l’unico strumento che è in grado di utilizzare per comunicare. Da qui, dunque, il bellissimo finale, dove capiamo che probabilmente il protagonista non riuscirà mai a fare fortuna, ma sa che non è più invisibile. “Finire un testo non significa essere pubblicati, essere pubblicati non significa essere letti, essere letti non significa essere amati, essere amati non significa avere successo, e il successo non offre alcuna promessa di fortuna”. La bellissima sceneggiatura di À pied d’œuvre ha impressa una dichiarata denuncia della contemporaneità e dei meccanismi che la governano. Perché alla fine non è Paul a essere instabile, ma lo è il mondo attorno a lui in cui regna “l’illusione della libertà attirata dalla flessibilità”, e dunque geneticamente instabile.

Eojjeol suga eopda (No Other Choice)

di Park Chan-wook (Corea del Sud) con Lee Byung-hun, Son Ye-jin

Concorso ufficiale

Man-su (Lee Byung-hun) ha tutto quello che desiderava dalla vita: una bella famiglia, la casa nella quale è cresciuto, un lavoro soddisfacente. È infatti da venticinque anni nella stessa azienda produttrice di carta: oramai è un esperto, uno dei pochi esistenti del suo calibro. Ma quando la società decide di tagliare il personale, non viene risparmiato. Dopo mesi di determinati tentativi senza risultati, inizia a vedere la propria vita disgregarsi. Messo alle strette, inventa un piano che consisterà nel tagliare anche la concorrenza.

Il maestro Park Chan-wook torna al Lido dopo un’assenza di vent’anni (ultima apparizione nel 2005 con Lady Vendetta), tempo che, ha dichiarato, “ho impiegato per fare questo film”. Tratto dal romanzo horror di Donald Westlake “The Ax”, che aveva già avuto un adattamento di Costa-Gavras (a cui questo film è dedicato) sempre venti anni fa, inutile dire che No Other Choice parli di mondo del lavoro e di ipercapitalismo. Lo fa ovviamente nello stile inconfondibile del regista sudcoreano che, da Mademoiselle (2016) passando per Decision to Leave (2022), si sta sempre più polarizzando. Forse nessuno come lui è in grado di co-scrivere e dirigere un thriller con un tono così divertente, tanto che a tratti ci troviamo completamente immersi in una commedia nera (indimenticabile la scena del primo scontro corpo a corpo, con cadenze slapstick), con eccellenza tecnica così sopraffina. Eppure, anche se la sceneggiatura e le immagini risultano fresche e originali, c’è qualcosa in fondo al film che non convince, che lascia tiepidi. Sarà che parliamo pur sempre di una persona con solide basi alle spalle che gli permettono di vivere per mesi senza stipendio, o che il piano del protagonista non sembra davvero “l’ultima scelta”, risultando dunque forzato, ma il difetto forse più rilevante dell’opera è che viene complicato provare per lui forte empatia. Certo, una persona che fa fuori i propri competitori per un posto in fabbrica, seppur da supervisore, non dev’essere completamente sana di mente. E, su questa evenienza, viene allora da chiedersi se non sia mancato un lavoro sugli attori, in primis su quel Lee Byung-hun (oramai arcinoto anche fuori dai confini nazionali per il suo ruolo in Squid Game), che non lascia trasudare nemmeno una piccola goccia di follia. E allora cosa ci vuole dire Park? Che il mito del lavoro, anche in Corea del Sud, è diventato eccessivamente ingombrante? Che senza occupazione, la tua occupazione, non esisti? Comprensibile, ma forse a quel punto il problema è che il dramma contenuto nel film è percepibile solo da una fetta di pubblico, quella proveniente da quei luoghi (o di quelle generazioni) che si identifica con il ruolo che ricopre.

Federico Benuzzi