Le Mage du Kremlin

di Olivier Assayas (Francia) con Paul Dano, Alicia Vikander

Concorso ufficiale

Russia, anni ’90. Vadim Baranov (Paul Dano) è un giovane artista teatrale che cerca il proprio posto tra le macerie dell’URSS, piene di nuove libertà economiche e intellettuali. Ma quando la sua compagna Ksenija (Alicia Vikander) lo lascia per un ricco bancario in ascesa (Tom Sturridge), Vadim si rende conto di volere più potere. Da promettente autore televisivo della tv nazionale, gli viene offerto il posto di spin doctor di quello che dovrà essere il nuovo presidente, tecnicamente fantoccio degli oligarchi: Vladimir Putin (Jude Law). È la quarta apparizione alla Mostra del Cinema di Venezia per Olivier Assayas, mentre la precedente era stata nel 2018 per Il gioco delle coppie, di cui questo riprende il concetto e la messa in scena. È infatti, questo Mago del Cremlino, più una pièce teatrale che una sceneggiatura cinematografica: tante scene statiche, altrettanto dialogo, tante frasi e situazioni a effetto. Il punto dell’opera non è quella sicuramente di far sobbalzare dalla sedia a suon di cazzotti o corse sfrenate in auto, e fin qui ce lo potevamo aspettare. Sorprende però la capacità del prodotto di tenere comunque incollati alla poltrona. Merito senza dubbio del regista francese, che oramai ha una discreta maestria nel cavalcare soggetti prevalentemente parlati, ma anche di quell’Emmanuel Carrère che, come lo stesso Assayas ha dichiarato, gli è servito per colmare le sue mancanze riguardanti la storia e la politica russa. Una mossa che fa onore e che giova al film che, oltre ad avere come ipertesto il romanzo da cui è tratto, del professore italiano Giuliano da Empoli – grande successo oltralpe -, ha come base teorica anche Limonov dell’autore francese, che raccontava le gesta dello scrittore, politico e intellettuale russo (fondatore del Partito Nazionalbolscevico) e che troviamo anche in un piccolo ma significativo cameo, interpretato da Magne-Håvard Brekke. Il film, come fa in maniera più rotonda – e analizzando un lasso di tempo più ampio – il romanzo di Carrère, parla della natura stessa del grande Stato eurasiatico e del modo di ragionare e contemplare la politica e la società dei propri abitanti. Che ovviamente ci aiuta, nonostante il primo cartello ci rassicuri che tutto è finzione (chissà poi quanta), a comprendere i conflitti in cui la Russia è coinvolta tuttora. Fino ad arrivare all’idea che, in contrapposizione agli Stati Uniti d’America, in Russia non sia importante il denaro, ma il potere. Lo specchiamento con il grande nemico novecentesco è l’anima del film: il giornalista che interroga Baranov è statunitense (Jeffrey Wright) e gli fa le domande che faremmo noi “occidentali”, e più volte si riporta la dualità gemellare, figlia però di nature diverse (eterozigote, si potrebbe dire) delle superpotenze. Laddove uno agisce, l’altro reagisce, che sia per l’utilizzo dell’algoritmo al fine di influenzare le elezioni, o lanciare l’amo a un giornalista che non vede l’ora di intervistarti, sapendo che probabilmente le tue ore sono contate.

Da sottolineare il grande lavoro attoriale di Dano e anche di un atteso Law, se non altro per la particolarità del personaggio da interpretare.

The Testament of Ann Lee

di Mona Fastvold (Regno Unito) con Amanda Seyfried, Thomasin McKenzie

Concorso ufficiale

Manchester, diciottesimo secolo. Ann Lee (Amanda Seyfried) è una ragazza molto devota che, dopo aver perso quattro figli in gravidanze consecutive, ha una visione divina. Decide così di fondare il movimento religioso degli Shakers, che credevano nella castità come unico mezzo per arrivare a Dio. Dopo un inizio complicato in patria, gli Shakers decidono di lasciare il Regno Unito per andare in una terra ancora spiritualmente grezza: le nuove colonie oltre l’Oceano Atlantico.

Mona Fastvold, alla sua terza opera da regista, ritorna in concorso al Lido dopo l’apparizione nel 2020 con The World to Come, altro dramma in costume con protagoniste femminili. Questa volta lo fa aggiungendo elementi musicali che rendono il film un vero e proprio musical, decisione sensata vista la natura della setta di cui tratta l’opera. La caratteristica degli Shakers, oltre a quella di avere come fondamento l’astensione totale da attività sessuali, era infatti quella di pregare “attraverso canti e movimenti estatici – atti di devozione tremanti, esuberanti e fisicamente espressivi”. Un elemento dunque di rottura, nonostante religione e musical siano tutto tranne che un binomio nuovo (basti pensare a Jesus Christ Superstar, Sister Act o The Book of Mormon), che permette alla regista (e al compositore Daniel Blumberg) di giocare con la storia e renderla, probabilmente, più interessante di quello che altrimenti sarebbe. Gli Shakers, scopriamo a fine film, non hanno poi avuto un grande futuro (appena seimila seguaci raggiunti all’apice della loro fortuna, a metà ‘800), e la storia è solo e soltanto quella di una ragazza persistente, devota e determinata (e con tutta probabilità anche stanca del marito), che come tanti altri inseguono il proprio sogno americano, qui in chiave evangelizzatrice. Al di là dell’ottima tecnica, il film dice qualcosa anche a noi? Ce lo si chiede durante tutta la visione, e per provare a darci una risposta cogliamo il suggerimento della Fasvold: “la sua (di Ann Lee) radicale ricerca di un’utopia costruita con le proprie mani è segno dell’impulso creativo al centro di ogni sforzo artistico: l’urgente necessità di dare nuova forma al mondo. In particolare, la sua chiarezza d’idee e la capacità di guidare gli altri verso un comune ideale richiamano lo spirito collaborativo che è alla base di qualsiasi impresa creativa, che si tratti di comporre una sinfonia, costruire un edificio o realizzare un film. Questo film è offerto come tributo al suo sogno e al silenzio che ora lo circonda.” Con rispetto, pensiamo che il parallelo con il mondo artistico sia molto debole, vista anche la messa in scena dove non ne viene fatto riferimento e, anzi, dove la protagonista viene dipinta solo e soltanto come un’estremista (per quanto gentile e inclusiva), soprattutto considerando che esiste una differenza sostanziale innegabile tra arte (anche quella da lei citata della costruzione, riferimento al The Brutalist del coniuge Brady Corbet da lei co-sceneggiato) e religione, e così riportate le parole della regista non escludono, per lanciare un esempio provocatorio, uno stesso film dallo stesso intento basato sulla costruzione dello Stato Islamico o del Terzo Reich. La creatività e la chiarezza di idee (spesso in ambito spirituale sinonimo di scevro dal dubbio) non sono sempre positive, dunque, per quanto ragguardevoli, e alcune figure del passato sono cadute tra le pieghe del silenzio della storia perché, semplicemente, anacronistiche.

Federico Benuzzi