The Smashing Machine

di Benny Safdie (USA) con Dwayne Johnson, Emily Blunt

Concorso ufficiale

Mark Kerr (Dwayne Johnson) è un lottatore di wrestling che alla fine degli anni ‘90 si dedica all’Ultimate Fighting, neonato sport che unisce tutte le discipline di combattimento esistenti. Kerr è un campione e vince sempre, ma per gestire il dolore inizia a prendere farmaci sempre più forti fino a quando non finisce in ospedale per overdose. Intanto la sua compagna Dawn (Emily Blunt) richiede sempre più attenzioni e la loro relazione inizia a sgretolarsi.

The Smashing Machine è il primo lungometraggio diretto, scritto e montato in solitaria da Benny Safdie. I suoi film precedenti infatti, tra cui i più noti Good Time (2017) e Uncut Gems (2019), erano stati tutti girati assieme al fratello Josh, che tra poco uscirà con il suo lavoro in solitaria (Marty Supreme, sulla storia di un giocatore di tennis tavolo con protagonista Timothée Chalamet). Guardando questo Smashing, non si può dire che il divorzio – momentaneo o meno – dal fratello non abbia giovato. Rispetto ai due lavori precedenti citati, è sensibile il cambiamento, decidete voi se di vostro gusto, sotto diversi aspetti. Innanzitutto, laddove in precedenza i movimenti di macchina e i dialoghi servivano a tenere alto il ritmo, avendo però come conseguenza quello di appiattirlo (a forza di andare ai duecento all’ora, ci si abitua anche a quella velocità) e ridurre la storia a dei meri scambi sincopati (laddove comunque forse non c’era poi tanto da comunicare), qui il ritmo è rallentato nei punti giusti e viene alzato dove è necessario. Si respira, insomma. Sembra anche, e forse è un’altra conseguenza dei ritmi bassi (o viceversa), che ci sia maggiore consapevolezza nella gestione del contenuto. E badate, non è solo una questione di soggetto, perché anche qui si sarebbero potuti accumulare movimenti di macchina veloci, corse e dialoghi a perdifiato. Forse Benny si è lasciato ispirare dall’animo gentile di Mark Kerr, che vediamo inquadrato nell’ultima sequenza sorridente, incredulo e anonimo in un parcheggio dopo aver fatto la spesa, e ha lasciato che una mano più delicata si occupasse di questa storia. Una storia che parla, attraverso un convincente Dwayne “The Rock” Johnson (alla sua prima volta al Lido e in un film non Blockbuster), di dipendenza da sostanze e affettiva, di fragilità, dell’American Dream (anche se in terra nipponica) e di quanto poi in fondo non sia così importante, dell’imparare a perdere e al comprendere i propri sentimenti. Nonostante non sia un film che fa gridare per l’estrema originalità, è, a memoria, una delle poche volte che viene dipinto il ritratto di qualcuno che, uscito dalla riabilitazione, non ricasca più nella dipendenza, che abbraccia le proprie fragilità, e che, da maschio, chiede aiuto alla propria compagna. È un film già visto questo The Smashing Machine, ma non lo avete mai visto.

L’étranger

di François Ozon (Francia) con Benjamin Voisin, Rebecca Marder

Concorso ufficiale

Algeri, 1938. Meursault (Benjamin Voisin) riceve un telegramma nel quale gli viene comunicata la morte della madre, ricoverata in un ospizio. Il ragazzo non piange, nemmeno quando partecipa al modesto funerale. Il giorno dopo, tornato a casa, inizia una relazione con una sua vecchia conoscenza, Marie (Rebecca Marder), incontrata per caso sulla spiaggia. Tornato senza batter ciglio alla quotidianità, il vicino Raymond (Pierre Lottin) lo coinvolge nelle sue paranoie nei confronti della compagna, che pensa lo tradisca. Meursault si troverà così con una pistola in mano, a decidere della vita di qualcuno che nemmeno conosce.

Trasposizione cinematografica del classico del 1942 di Albert Camus Lo straniero, è la settima partecipazione di Ozon al Lido. L’ultima fu nel 2016 con Frantz, che era stato anche l’ultimo lungometraggio girato in bianco e nero prima di questo, presentato oggi al Festival. Il regista ha dichiarato che sue questioni personali e familiari legate all’Algeria lo hanno spinto a imbarcarsi nella spaventosa traversata di un monumento nazionale letterario come quello in questione, anche se questo tratto non si percepisce. Unica deviazione dal testo è quella sulla tematica razziale, che aggiunge un veloce scambio tra Marie e la sorella dell’arabo ucciso. Per il resto, dunque, il film rimane un’opera capitale sulla non importanza della vita e sull’effimerità delle questioni umane, e non può non ricordare quell’altra opera di Camus che è il testo teatrale Caligola.

Anche lì il protagonista è un nichilista e materialista, ma rispetto al Meursault era più emotivo e più potente, di conseguenza più imprevedibile. E queste tematiche possono essere guardate da punti di vista opposti: la vita non è importante, così come quello che facciamo, ma c’è un limite che è il rispetto degli altri. Invece, l’intento di Meursault sembra quello di trasformarsi in un robot, e l’unico ostacolo che vi si sovrappone è l’amore – mai dichiarato, ma sono gli unici sorrisi a lui strappati – per Marie e, come dice lui stesso durante il processo, il caso. La forma longilinea e composta di Voisin e le musiche, un mix di sonorità arabe e ritmi metallici che ricordano la fantascienza anni ’50, avvalorano questa ipotesi. Non è un caso, poi, che questo romanzo sia uscito nel ’42, considerando che in Germania c’era chi della vita altrui se ne interessava poco, se non con l’unico intento di distruggerla, e che sia ambientato nell’Algeri coloniale, nella quale un francese uccide un algerino “per caso, è stato il sole”. Il film è una trasposizione fedelissima, forse troppo. Alcuni libri, com’è nel caso de Lo straniero, sono talmente archetipici da essere più che complicati da filmare, quasi sconvenienti. Un adattamento semplice, per quanto richieda comunque di attuare delle scelte (direzione, cast, fotografia, musiche, etc.) rischia di risultare impersonale e, per dirla crudamente, di non apportare nulla di nuovo. Sarebbe stato forse più interessante e auspicabile trovare all’interno dell’opera qualche scelta che deviasse, aggiungesse o addirittura variasse dall’originale, per rendere il prodotto finale una lettura più autoriale e personale di qualcosa che, altrimenti, non ha bisogno di essere riproposta nella sua versione essenziale.

A House of Dynamite

di Kathryn Bigelow (USA) con Idris Elba, Rebecca Ferguson

Concorso ufficiale

È una mattina come tante negli Stati Uniti d’America. Negli uffici della Casa Bianca, al Pentagono e in altri posti di controllo collocati in luoghi strategici, tutto sembra filare come al solito,fino a che nei radar militari non viene localizzato un missile nucleare che dalle coste asiatiche del Pacifico è diretto verso il nord America. Inizia così un conto alla rovescia di venti minuti: quelli che mancano all’ipotetico impatto che porterebbe a conseguenze devastanti. Kathryn Bigelow torna alla Mostra del Cinema di Venezia, in cui mancava dal 2008, quando era passata con The Hurt Locker (che le era valso sei premi Oscar, tra cui regia e miglior film), e dietro la macchina da presa a otto anni di distanza da Detroit. Che la regista statunitense sia votata a storie che trattano di guerra o politica è ormai un dato di fatto, parla la sua filmografia degli ultimi vent’anni. Qui torna sui passi interrotti con Zero Dark Thirty, dando forma a una storia che ha come protagoniste le alte sfere del comando. Il concept è molto semplice: cosa succederebbe se un missile nucleare si dirigesse verso gli USA? Da tanto tempo, e non solo negli ultimi mesi dove la parola “riarmo” è tornata di moda, si discute del valore di deterrenza che le testate atomiche hanno sull’equilibrio geopolitico mondiale: tu le hai, io le ho, non le usiamo ma potremmo. E la metafora contenuta nel film, che fa anche da titolo, è il succo del peso di questa deterrenza: è come se la nostra casa fosse piena di dinamite e noi continuassimo a viverci tutti i giorni. C’è poco (o tanto) da dire, a caldo, su questo film. La scrittura, affidata a Noah Oppenheim (miglior sceneggiatura a Venezia per Jackie nel 2016), suddivide la storia in tre parti cronometricamente pressoché uguali, nelle quali il countdown ricomincia ogni volta da capo; in ognuna di queste sezioni, veniamo immersi in numerosi punti di vista eterogenei, dei quali – con pochissime battute grazie a un lavoro magistrale – veniamo a conoscenza anche della back story e del personalissimo profilo psicologico. Il dramma dunque si ripete, si amplifica, si gonfia di empatia e di disgusto. Le battute sono recitate da un ampio cast scelto con cura – in cui spiccano per notorietà al grande pubblico i soli Idris Elba e Rebecca Ferguson – che lavora in maniera affiatata e corale al fine di dare concretezza alla finzione scenica. Lavoro la cui riuscita, ovviamente, non può che passare dalle mani della regista, che qui tocca uno dei punti più alti della sua già notevole carriera. Il messaggio, urgente e drammatico quanto (im)potente, viene consegnato in una sua forma finale, grezza, cruda e poetica, riassumibile con il paradosso da lei stessa presentato: “l’intorpidimento collettivo”, “la silenziosa normalizzazione del pericolo”, “la follia di un mondo che vive nell’ombra dell’annientamento ma ne parla raramente”. Tutto questo, durante la visione, viene capovolto, in un disaster movie senza il disaster, che fa capire quanto anche noi non possiamo escluderci dagli anestetizzati dalla situazione che ci circonda. “It’s not insanity, it’s reality”, risponde un generale al Presidente degli Stati Uniti. Siamo pronti alla Guerra Totale? Ne vale la pena? La speranza è che il rischio non si trasformi in sacrificio, come invece ci mostra quest’opera al limite della perfezione. In un concorso che, rispetto agli ultimi anni, ha portato al Lido una media qualitativa in sensibile crescita, A House of Dinamite si presenta come il candidato più forte, al momento, per il Leone d’Oro.

Federico Benuzzi