Bentornati cari lettori ad un nuovo appuntamento con la rubrica Inside Art. Oggi parleremo di William Turner e in particolare di una delle sue opere più suggestive: La nave negriera (The Slave Ship).
Turner nacque il 23 aprile 1775 a Londra, al n. 21 di Maiden Lane. Il padre, William Gayone Turner, era un barbiere e fabbricante di parrucche; la madre, Mary Marshall, era invece una donna eccentrica e volubile e, in seguito alla morte prematura della figlia Helen (avvenuta nel 1786), cominciò a dare i primi segni di squilibrio mentale.
L’11 dicembre 1789 riuscì ad entrare alla Royal Academy School di Londra. Nel 1790, all’età di quindici anni, Turner presentò il suo primo acquarello all’esposizione annuale della Royal Academy. Nello stesso anno cominciò a recarsi in campagna e a dipingere paesaggi e studi dal vero.
Noi tutti conosciamo il Turner piacevole e i suoi stupendi lavori, che fin dagli esordi affascinarono l’Academy, degni della tradizione paesaggistica accademica e che al contempo incontravano il gusto della classe alta committente. La qualità è eccelsa e il paesaggio inglese si tinge di una luce paradisiaca.
Ma nel profondo dell’animo vi era un altro Turner, un oscuro pittore del caos primordiale del mondo e dell’apocalisse, uno spirito assetato di opere ambiziose, senza regole, estremo e ad un passo dalla follia. Insomma, il vero Turner, quello contestato dai colleghi e dalla critica, il cui delirio visionario terminò con il capolavoro della pittura britannica del XIX secolo, La nave negriera.
Il dipinto è un olio su tela (91×122 cm) realizzato nel 1840 e attualmente conservato presso il Museum of Fine Arts di Boston. La prima cosa che va detta riguardo il soggetto è che tale tematica, quella dello schiavismo, prende lentamente piede nella mente di Turner in seguito all’amicizia che questi ebbe con il politico Walter Fawkes, che per l’appunto stava conducendo una crociata contro quest’abominevole pratica.
Turner cercò di dire la sua tramite la pittura, andando a pescare una delle pagine più oscure della storia della Gran Bretagna, narrando in pittura un evento accaduto circa sessant’anni prima. Nel 1781, sulla nave negriera Zong, all’incirca all’altezza delle coste giamaicane scoppiò una terribile epidemia tra gli schiavi; il carico del comandante era assicurato, ma solo in caso di perdite “in mare”, perciò per rientrare nelle spese si decise di gettare fuoribordo 132 africani, tra cui uomini, donne e bambini, con mani e piedi incatenati, nelle acque infestate di squali dei Caraibi. Dal loro martirio nacque un movimento di massa che portò all’abolizione, almeno nell’impero britannico, della tratta degli schiavi.
Il maestro decise di trattare questa tragedia non come un analitico illustratore di storia ma, come il Prospero shakespeariano, volle evocare l’apocalisse tramite un tifone, in cui la nave negriera ci scaglia al centro di un incubo febbricitante fatto di catastrofe e terrore, peccato e punizione. Appena percepibile è l’imbarcazione, quasi inghiottita dalla spuma del mare, che è allo stesso tempo sia un vascello reale che un’apparizione infernale. Nelle onde ribollono i mostri, che come piranha maledetti affondano i denti con avidità. È l’inferno in mare aperto. Turner ci trascina in quel momento, ci annega nel baratro dell’oceano e nella sua luce sanguigna.
L’opera segna il trionfo della resa scultorea dello spazio, perché né l’atmosfera di tempesta né il turbinare di rossi e di ori avrebbe la forza dirompente che invece ha se Turner non avesse scolpito una terrificante voragine nell’oceano proprio al centro del dipinto, dove la furia nera delle acque in tempesta si blocca, come se la mano imperiosa di dio fosse passata improvvisamente sopra i flutti ribollenti. È il giorno del martirio, della punizione e del giudizio, ma anche della vendetta, perché questo peccato sarà redento e la schiavitù sarà sconfitta, come lascia intuire una traccia di azzurro chiaro nell’angolo superiore destro del dipinto.
È quando il turbinio di colori diventa più intenso e più elevato del semplice intrattenimento dei sensi, è quando attinge alle verità della storia e della vita che Turner diventa il più grande. È il momento in cui trasforma non solo l’arte britannica, ma tutta la storia dell’arte.
Tommaso Amato