In questa rubrica ci proponiamo di indagare i legami più o meno nascosti tra arte e psicologia.

L’etimologia del termine latino “sublimis” intende il sublime come un qualcosa che “orienta verso un punto di fuga nell’infinito, all’indeterminato.”

Già Kant fece una distinzione tra i concetti di bello e sublime: per bello si intende armonia, l’equilibrio tra ragione e fantasia, mentre per sublime s’intende ciò che è eccessivo, a dis-misura d’uomo, infinito. L’autore stesso attribuisce il concetto di sublime alla Natura, agli spazi sconfinati, agli abissi, alla notte infinita, alle montagne gigantesche. E’ la natura immensa e lontana della Natura, che sgomenta l’uomo.

In psicoanalisi, Freud fu il primo a concettualizzare la sublimazione come una particolare inclinazione, o, per meglio dire, una particolare declinazione della meta e dell’oggetto, dove per oggetto (oggetto che non ha specificità) s’intende ciò con cui la pulsione può arrivare a raggiungere la meta, il suo soddisfacimento. Infatti, per l’autore, la pulsione è da intendersi come pulsione sessuale in continua lotta con la valutazione sociale che può portare l’inconscio del soggetto alla modificazione di quella meta in termini di un soddisfacimento altro, condivisibile socialmente. Jacques Lacan si discosta da Freud nella misura in cui si appresta ad ampliare il concetto di sublimazione artistica: egli disconferma la mera funzione di mascheramento o occultamento dell’arte, intesa come ‘forma’ di pulsioni sessuali inaccettabili, e ci porta, invece, a considerare la sublimazione artistica come quel processo in cui l’oggetto d’arte si configura come un oggetto immaginario. Quest’ultimo si colloca simbolicamente nel posto del vuoto, che è un vuoto presente, che risiede nell’uomo e viene definito la Cosa, das Ding. Riprendendo Freud, Lacan intende das Ding come l’oggetto perduto, ovvero l’esperienza di un soddisfacimento originario e primario, un primo felice incontro, che ha subito un taglio ad opera del linguaggio: l’accesso alla parola conduce alla morte della Cosa.

Anonima

A questo punto, il ritorno a tale esperienza emotiva è inaccessibile: l’uomo va alla continua ricerca di quella Cosa, che però è andata ormai perduta per sempre, lasciando un incolmabile posto vuoto. J.Lacan, nel seminario VII, afferma che l’arte, per esistere, necessita ‘il vuoto della Cosa’; ed ecco che si spiega perchè borda quel vuoto senza evitarlo od occluderlo. Si capisce come sia imprescindibile, quindi, il riconoscimento della perdita, che avviene però in maniera retroattiva: è al suo ritrovamento che vi è consapevolezza di quanto non potrà tornare ad esserci. L’arte, insomma, crea bordi, costeggia, circoscrive quel vuoto, che necessita dunque di prendere una forma, di avere dei confini, di avere un contenimento, per non rimanere un eccedente emotivo informe.
S. Grosso, in “Psicoanalisi e arte: il conflitto estetico”, riprende H. Segal, che mostra come Marcel Proust, più di tutti, sia un artista che illustra quanto detto finora: Proust supponeva che l’artista creasse a partire dal suo bisogno di ritrovare quanto andato perso. Tuttavia, al ricordo manca un pezzo di vita: esso è fugace, ancor più se nasce da un’associazione occasionale, come accade per l’autore nella rievocazione della sua infanzia a partire dall’odore di un dolce. Lo scrittore, in questo senso, intende che sia necessario fare qualcosa per rendere meno effimere quelle associazioni che chiama ‘intermittenze del cuore’. Questo mettersi all’opera, per catturare tali ricordi e rendere ad essi vita persistente, imperitura e integrata con il presente, diventa la produzione di un’opera d’arte. Nella Recherche, l’autore fa parlare uno dei suoi personaggi, il pittore Elstir, con queste parole: “solo con il rinunciarvi si può far rivivere ciò che si ama”, intendendo dire che il passato perduto e l’oggetto perduto possono diventare tali solo nel vero riconoscimento di tale esperienza, della sua sofferenza, dalla quale può generarsi la ri-creazione, come una fenice. In altri termini, l’arte è intesa come una riparazione da un’aggressione, da un’angoscia: ha a che fare con il ricordo inconscio di un’armonia, di cui si è fatta esperienza di distruzione, mettendo in una posizione depressiva il soggetto, che può essere sanata riunendo il ‘brutto’ esperito al ‘bello’ dell’opera d’arte. Ma non solo: nella misura in cui l’artista crea un qualcosa, a partire dall’elaborazione di quella primaria esperienza di separazione, inevitabilmente se ne separa. Nel darlo al mondo, ne fa un atto di comunicazione.

Per concludere, la sublimazione si può riassumere nell’esperienza della perdita e della sua interiorizzazione, della sua elaborazione e della sua riparazione, a creazione di un oggetto d’arte che è soluzione per l’artista e può esserlo anche per gli altri.

Valentina Moscatiello

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