Regista spagnolo di fama internazionale, Almodóvar è un autore che si è negli anni distinto in quando ad abilità stilistica e narrativa, confezionando da sempre film dotati di un candore particolare, di una carica poetica unica. Quest’anno il regista torna al Festival di Cannes, portando con sé il suo ultimo lavoro, un film dal peculiare spirito autobiografico, a metà fra il testamento e la pura riflessione filosofica.
Salvador (Antonio Banderas) è un regista di culto, proclamato al pubblico internazionale con il suo lungometraggio Sabor, di cui ancora soffre la travagliata produzione. Provato da una salute cagionevole e da un continuo stato di depressione, egli non ha altra gioia che ritornare con la sua mente ai ricordi passati, rivivendo perennemente la sua infanzia, il rapporto con la madre (Penélope Cruz) e la grande passione per il cinema.
Ciò che salta subito all’occhio è la cura che il regista ha posto nella messa in scena della sua opera: le scenografie appaiono fin dai primi attimi elaborate, strutturando sapientemente la divisione fra il tempo del presente (Salvador, il suo lavoro, i suoi amici) e quello del passato (Salvador da bambino, la madre e i suoi studi). Ad enfatizzare tale differenza vi è la netta contrapposizione fra spazi artisticamente complessi, come la casa del regista piena di opere pittoriche e scultoree di stile sia classico che astratto, e spazi più semplici e modesti, come la casa-grotta in cui il piccolo autore è cresciuto. Il film viene arricchito, inoltre, da delle scelte cromatiche tecnicamente ineccepibili, le quali vanno dal semplice risalto dato dalle piastrelle colorate sui muri bianchi della casa infantile al gioco di colori che si crea fra i vestiti dei personaggi e gli ambienti dai toni contrastanti intorno a loro. Tuttavia, se da un punto di vista tecnico si ritrova l’evidente preparazione artistica che Almodóvar ha acquisito negli anni, a livello narrativo si sviluppa una serie di dubbie scelte espositive. Partendo dall’uso di una prima forma di racconto strutturata tramite una computer grafica ambigua, la quale stona fin troppo con il ritmo complessivo dell’opera, vi è un senso di mancanza continuo, come se il film stesse rimarcando fin troppo gli stessi avvenimenti, non approfondendo a dovere la psicologia di Salvador e la sua crescita.
Pur avendo più volte promulgato un’apparente connessione fra il regista e la sua controparte filmica, Almodóvar tradisce paradossalmente sé stesso, portando lo spettatore a vedere una realtà che è sì orientata all’amore comune dei due verso la storia del cinema e la sua espressione, ma peccando di una narrazione che non riesce ad innalzarne a dovere le caratteristiche. Tolta la presenza del cinema, il film poteva tranquillamente avere come polo riflessivo la pittura o il teatro iberico. Alla domanda: “Perché proprio il cinema?” non vi è una risposta.
Considerato dalla maggioranza della critica mondiale come un esempio ante tempore di testamento artistico, il lungometraggio di Almodóvar non trova quell’esaltazione visiva che tanto promulga, stazionando in una serie di affreschi dal tono malinconico e filosofeggiante che brilla solo in parte.
Per finire, è necessario fare un piccolo, ma doveroso plauso alla performance di Banderas: nota che migliora anche le sequenze più sterili, l’attore riesce a veicolare efficacemente interesse ed emozione in ogni suo movimento e gesto, migliorando e completando mirabilmente non solo il suo ruolo, ma l’intera produzione.
Scontrandosi quest’anno con altri grandi registi contemporanei come Malick, Bellocchio e Tarantino, il regista spagnolo potrebbe non ottenere il successo sperato, ma tutto è ancora da vedere.
Edoardo Novello