Nella lingua italiana con il termine “casa” si può indicare l’edificio abitativo oppure il focolare domestico che accoglie, il luogo che diventa parte di sé e a cui si ritorna sempre. Fern, un possibile terzo Oscar per Frances McDormand, lo mette subito in chiaro con fierezza: I’m not a homeless, I’m just houseless. It’s not the same thing, right?”. Dopo la morte del marito la sua casa è diventata d’avanguardia; se la porta con sé attraverso gli Stati Uniti, arrabattando roba qua e là e racimolando il necessario per sopravvivere prima di ripartire nuovamente alla scoperta della wilderness americana, abbracciata dai campi lunghi della fotografia di Joshua James Richards.

Chloé Zhao si avvicina in posizione di ascolto fino ai primi piani di volti canuti, alle rughe scolpite dalle intemperie, a occhi che hanno davvero visto ciò che le labbra increspate raccontano. Il confine con il documentario viene valicato dall’incontro con veri vandweller, la grande tribù degli ultimi pionieri americani che conduce uno stile di vita nomade. Sarebbe semplice chiamarli “senzatetto”, eppure non sono “senzacasa”. La loro casa è senza indirizzo postale ma come dice Morrisey “home [is] something you carry within in you”, sempre in movimento ma mica per capriccio, essenziale eppure piena di oggetti barattati e condivisi.

Come nel precedente ma ancora scolastico The Rider, Chloé Zhao restituisce grande dignità alla capacità di adattamento dell’America dimenticata, fuori dal mito della terra delle opportunità. Questa volta abitata da disoccupati di mezz’età che dopo la crisi economica sono stati esclusi dal mercato del lavoro, da veterani di guerra con il disturbo da stress post-traumatico, da chi ha risparmiato per una vita per poi vedere la propria pensione prosciugata dal sistema sanitario privato. Da chi la morte l’ha vissuta, la porta con sé in viaggio e la condivide con i compagni di avventura conosciuti sulla strada stringendo un legame fraterno con il mondo.

Con la schiettezza che la contraddistingue, Frances McDormand si fa animale trascinato dal proprio istinto migratorio, alla ricerca di un’America primordiale che sulla mappa sembra avere solo luoghi di transizione – i campeggi, le autostrade, i parcheggi – senza mete prestabilite o punti di riferimento. È la vita in divenire che con gli occhi della wanderlust avvicina alla consapevolezza di essere un puntino nell’universo, il ricordo legato all’altro nel fluido senso di progressione costruito da un cerchio che si ripiega su se stesso e non finisce mai.

Giulia Silano

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