Fino all’osso è la storia di Ellen, una giovane ragazza di vent’anni che sin dall’adolescenza combatte con grande fatica contro l’anoressia nervosa. Un film d’impatto e molto discusso perché descrive una delle sintomatologie contemporanee più diffuse tra i giovani, in cui il corpo è al centro di tutto, è teatro ed espressione di qualcosa.

Il campo della psicologia si occupa da tempo del trattamento dei disturbi alimentari e al di là dei vari orientamenti una cosa è certa, non si può imporre ad una paziente anoressica di mangiare sperando che in questo modo si arrivi alla risoluzione del problema. L’oggetto-cibo è ciò che più spaventa, in molti casi è il nemico da combattere, fino all’osso, appunto. E’ proprio questo che fa Ellen, vivendo la sua vita immersa in una famiglia piuttosto atipica e a tratti mal funzionante, probabilmente il fattore scatenante della sua malattia. I due genitori sono divorziati, la ragazza vive con il padre, figura da sempre poco presente nella sua vita, e la nuova famiglia di lui. La compagna del padre, Susan, sarà proprio il personaggio che aiuterà Ellen ad affrontare il suo male per l’ennesima volta, portandola in una casa per giovani anoressici, dopo una serie di tentativi di cura fallimentari. La sua matrigna e la sorella della protagonista, Kelly, rimangono le uniche a darle man forte in questa battaglia contro la malattia senza mai smettere di starle accanto. La madre di Ellen invece sembra essersi arresa e da anni, dopo il divorzio con il padre, vive insieme alla nuova compagna, lontana dalla figlia.

Il percorso riabilitativo che la protagonista intraprende non è per niente privo di difficoltà. Durante la sua permanenza è sottoposta ad una terapia di gruppo, che non si esaurisce nelle condivisioni con gli altri pazienti; è infatti costantemente esposta al confronto con loro, con la loro malattia e con le differenti modalità di affrontarla. Gli altri sono uno specchio per Ellen, assistendo ai loro successi o insuccessi non può far altro che entrare sempre più in contatto con il suo problema e con le sue paure. Nonostante questo, la ragazza non riesce ad abbandonare la sua anima anoressica, in quanto sembra servirle a tenere sotto controllo tutto ciò che le manca e le è sempre mancato nella vita. Il buco affettivo derivante dal rapporto con i genitori, evidentemente assenti e lontani, per Ellen è inconsciamente inaccettabile, un bisogno che nessuno ha mai colto. Perché allora dovrebbe lottare lei per riempire quella mancanza? Perché non ridursi all’osso, per non lasciarsi divorare da quel vuoto? Perché mai dunque Ellen dovrebbe ricominciare a mangiare?

Eppure, una delle cose che spesso viene data per scontata e a cui non tutti gli esperti prestano attenzione, è che l’anoressica ha fame. Ma di cosa ha fame, con precisione? Di niente, sembra essere la risposta della psicoanalisi. L’anoressica mangia, mangia il niente. In campo psicoanalitico i disturbi alimentari sono lo specchio del rapporto del soggetto con l’Altro e con il suo desiderio. Un desiderio inarrestabile e divorante di cui il soggetto diventa oggetto. Il “niente” di cui si priva e allo stesso tempo si nutre l’anoressica è soltanto un modo per continuare ad esistere, evitando di essere risucchiata nel vortice del godimento dell’Altro.  Lo psicoanalista Recalcati ne “L’ultima cena. Anoressia e bulimia” sostiene che il soggetto anoressico si auto-conserva fino a diventare “un nulla”, fino a quasi “sparire”, per non essere oggetto di cui godere[1].

Chi è per Ellen questo Altro che gode di lei senza realmente dimostrarle amore? Sebbene l’intero contesto familiare sia anomalo, la figura materna è la più rilevante e non perché assente, come quella paterna, ma perché la madre della giovane ha smesso di lottare per lei e l’ha lasciata sola, in un certo senso ha smesso di nutrirla. Ne è espressione cruciale il momento in cui Ellen, quando decide di arrendersi all’anoressia, scappa dalla clinica per andare a trovare la madre, quasi come se le stesse gridando di salvarla dalla sua malattia. Qui accade quello che gli psicologi americani chiamerebbero holding o contenimento, la madre la prende in braccio e la culla come se fosse una neonata, dandole anche il latte da un biberon. La scena, seppur a tratti bizzarra, serve come atto riparatorio di un rapporto madre-figlia irrisolto e diventa la chiave di ripartenza per la guarigione. In questo caso, la madre restituisce alla figlia il nutrimento che le aveva tolto, la possibilità di sentirsi ancora accolta e desiderata. Il nulla a cui si riduce Ellen, il suo farsi vuoto, apre a sua volta un vuoto nell’Altro che finalmente, dopo tanta fatica, risponde alla sua fame, una fame insolita, quella d’amore.

Susanna Mapelli


[1] M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, B. Mondadori, Milano 2007, p. 120