Le parole. Già.
Dissolvono l’oggetto.
Come la nebbia gli alberi,
il fiume: il traghetto.
(Giorgio Caproni, Il franco cacciatore, 1982.)
Coltelli nelle galline di Andrée Ruth Shammah, debuttato al Napoli Teatro Festival nel giugno 2019 e ospitato al Festival dei Due Mondi di Spoleto il mese successivo, è stato un successo di critica e pubblico.
Lo spettacolo, dice Andrée Ruth Shammah, nasce dalla volontà di lavorare con Eva Riccobono, già diretta in Stasera si può entrare, fuori, dramma itinerante svoltosi presso la Palazzina dei Bagni Misteriosi a Milano nel 2017. Il testo originale, Knives in Hens (1995), è di David Harrower, drammaturgo scozzese contemporaneo, e racconta una storia di ambientazione rurale e non identificata temporalmente. Si può supporre di essere in un periodo tra Medioevo e Rinascimento, ma poco importa. Sono tre i personaggi che si alternano sulla scena: Pony Williams (Alberto Astorri), l’uomo che spinge l’aratro, così soprannominato dagli abitanti del villaggio per la sua passione per i cavalli, sua moglie, molto più giovane di lui e appellata semplicemente come Giovane Donna (Eva Riccobono) e Gilbert Horn (Pietro Micci), il mugnaio.
Protagonista della pièce è la Giovane Donna, devota a Dio e assetata di una conoscenza tassonomica, tanto da cercare disperatamente di ‘conficcare’ un nome in tutto ciò che osserva, come affondasse il coltello nello stomaco di una gallina. Una vacua ricerca, quella della giusta parola, e senza una meta, poiché tutto ciò che nominiamo, irrimediabilmente, un attimo dopo muta, cessa di essere quello che era e si trasforma vanificando il nome appena trovato per descriverlo.
GIOVANE DONNA: «ogni volta che le guardo, le cose cambiano». (mia la trascrizione).
La ragazza vive in casa col marito, un uomo semplice, rude e pio che si accontenta di ciò che ha e di ciò che sa, e che arrivato al suo orizzonte, metaforicamente il campo più esterno del villaggio, si ferma e torna indietro: «stai con quello che sai», ripete in una battuta alla giovane moglie.
La scintilla nata nella Giovane Donna trova libero sfogo nel personaggio di Gilbert Horn, il mugnaio: una figura storicamente emarginata e vista con sospetto dagli altri abitanti del villaggio perché privilegiata dal poter trattenere una parte della farina ottenuta dalla macinazione del grano. Gilbert però è un uomo acculturato, divoratore di libri sempre presenti sulla sua mensola, ed è accomunato alla Giovane Donna dalla brama di conoscenza che cerca di saziare con la scrittura, ogni sera, dopo il lavoro. Inizialmente diffidente, istigata, dal marito e dalla superstizione, all’odio verso il malcapitato mugnaio, una volta rivelatogli il proprio nome si lascerà coinvolgere da Gilbert in una relazione, anche se di una sola notte, che sfocerà in un efferato omicidio. Nel confidare il proprio nome, e solo al mugnaio (mai al pubblico) scrivendolo sul foglio, è come se la Giovane Donna prendesse piena coscienza di sé, si riappropriasse della propria persona – fino a quel momento tenuta come una proprietà dal marito – e come una moderna Eva (curiosa la corrispondenza con il nome dell’attrice) fosse ora in grado di nominare, e nominando dominare il mondo attorno a lei: «Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra.». (Genesi 1, 28).
Un lavoro di ricerca sulle parole e di continuo affinamento, a partire da una traduzione di Monica Capuani, che ha visto coinvolti gli attori e la regista. Alla parola si è poi associato il gesto: «Dalla scelta di ogni singola frase derivava un modo preciso di pronunciarla […]. Per ciascun attore ogni movimento doveva essere non solo funzionale ma anche espressivo, evocativo, e così ho cominciato a far spostare agli attori i modellini in scala […] che moltiplicano i piani della visione in un gioco di progressiva astrazione e messa a fuoco […]» (dalle note di regia di Andrée Ruth Shammah).
I modellini che cita la Shammah sono parte di un complesso allestimento costruito su più livelli coesistenti. Lo spettacolo è composto da ventiquattro scene, alternate in quattro ambienti identificati dai modellini in scala costruiti da Margherita Palli con la collaborazione di Marco Cristini, e mossi dagli attori a ogni cambio scena sancito da un arpeggio acuto (musiche di Michele Tadini), dal buio in sala (luci di Camilla Piccioni) e dallo spostamento del fantoccio – anch’esso in scala, realizzato tramite stampa 3D – della Giovane Donna nel modellino corrispondente alla scena. A ciò si aggiunge uno spazio virtuale ideato da Luca Scarzella e proiettato su uno sfondo bianco che all’occorrenza diventa una quinta e una porta di uscita. I costumi, semplici e chiari in tonalità di bianco (per permettere la proiezione anche su di essi) sono realizzati da Sasha Nikolaeva. Il palcoscenico consta di un rettangolo sollevato da terra e accessibile da tutti i lati, il pubblico è disposto tutto intorno alla scena, e a meno di un metro da essa, assicurandogli un pieno coinvolgimento nell’azione.
Eva Riccobono, nel salto da modella a contadina, atterra in piedi e riesce in una prova difficile tutta basata sulla pronuncia frammentata delle battute; Pietro Micci, già noto alla regista milanese e abituato a ruoli altoborghesi (adatti alla sua fisicità), non sfigura nel ruolo del mugnaio, riuscendo nell’impresa, aiutato nella costruzione del personaggio dalla collaboratrice artistica Isa Traversi. Efficace, nel ruolo del marito, Alberto Astorri è stato poi sostituito nella ripresa dello spettacolo al Teatro Franco Parenti nel settembre 2019 da Maurizio Donadoni.
La regia di Andrée Ruth Shammah riesce a rispettare le premesse:
«La regia è il grande occhio che ci mostra quello che vede. Ogni parola è sede del suo pensiero sul mondo, e l’attore lo segue, lo esegue. […] Era mio compito e responsabilità far sì che la parola carnale e violenta di David Harrower diventasse azione e vita, seducendo, liberando, facendosi coscienza.» (dalle note di regia di Andrée Ruth Shammah).
Infine, uno spettacolo che augura al pubblico di proseguire, e spingersi avanti nella ricerca della conoscenza, non fermarsi al campo più esterno del paese, ma fare come il mugnaio che, avendo in ultima istanza riconosciuto di aver appreso tutto il conoscibile del villaggio, fa le valigie e parte per la città.
«Avanti! Ancòra avanti!»
urlai.
Il vetturale
Si voltò.
«Signore,»
mi fece. «Più avanti
non ci sono che i campi.»
(Giorgio Caproni, Il muro della terra, 1975)
Tommaso Quilici
Lo spettacolo è visibile a questo INDIRIZZO