Ambiziosa e ricca di ingredienti vincenti sulla carta, Nine Perfect Strangers è la miniserie originale Hulu con i più alti dati di ascolto al suo debutto negli Stati Uniti. I punti di forza e le debolezze di questo drama, distribuito in Italia su Prime Video dal 20 agosto al 24 settembre 2021, possono essere colti riflettendo su due aspetti.

Il primo è il discorso produttivo-creativo intavolato dalla triade Kidman-Kelley-Moriarty, un sodalizio artistico tra serialità televisiva e letteratura, che descrive una parentesi ormai conclamata nel panorama americano. La creazione da parte di David E. Kelley di Big Little Lies (2017-2019), tratto da Piccole grandi bugie (2014) di Liane Moriarty già con Nicole Kidman nella doppia veste di protagonista e produttrice, aveva riscosso enorme successo e ampio consenso presso la critica. Un incontro ulteriormente consolidato nel 2020 con The Undoing – Le verità non dette, una miniserie dai toni investigativi ispirata a Una famiglia felice (2014) di Jean Hanff Korelitz

Kelley e Kidman adesso sono tornati nuovamente a Liane Moriarty, un’autrice australiana che con un’opera come Nove perfetti sconosciuti (2018) ha offerto un terreno fertile per l’ingegno dei produttori e degli sceneggiatori. Gli elementi finzionali in effetti abbondano, pronti per essere adattati su una delle piattaforme di video on demand più importanti dello scenario streaming contemporaneo. 

Dal punto di vista narrativo, si apre infatti una galleria di personaggi, i quali nel corso delle otto puntate toccano i punti nevralgici della società moderna: riuniti in un lussuoso resort sotto la guida della sua misteriosa fondatrice di origini russe Masha Dmitrichenko (Nicole Kidman), nove ospiti si incontrano e si pongono l’obiettivo di sanare i tormenti sotto i consigli della proprietaria guru. 

Adottando un registro drammatico che spesso cede a risoluzioni banali e a insospettabili momenti iperbolici al limite del kitsch, Nine Perfect Strangers si prefigge di mettere in scena la crisi di coppia, la dipendenza dai social, la ricerca della propria identità, la rielaborazione del lutto intrecciata alla crisi della mezza età e al vincolo matrimoniale. Queste storylines si susseguono in un ritmo a volte un po’ fiacco e mancante di una certa coesione, in un’atmosfera fluida e lattiginosa come quella dei beveroni ingurgitati, scagliati e vomitati dai protagonisti, un elemento iconografico ricorrente anche nella sigla. 

Se la narrazione sembra peccare di pretenziosità, una nota di merito va al cast, perfetto nella sua eterogeneità. Su tutti l’interpretazione di Melissa McCarthy, la quale, oltre a figurare come co-produttrice, è riuscita a tratteggiare le ansie di Francis Welty, una scrittrice sul baratro dell’insuccesso lavorativo ed esistenziale, a conferma di una grande credibilità nei ruoli comico-drammatici, come già dimostrato al cinema in Copia originale (2018) di Heller.

Lodevole anche la prova di Michael Shannon nella fragilità di Napoleon Marconi, un uomo alle prese con il superamento della perdita del figlio e la precarietà del ruolo di marito e di padre di famiglia, corde di follia già sfiorate dall’attore sul grande schermo in Revolutionary Road (2008) di Mendes e Animali notturni (2016) di Ford.

Eterea, algida, quasi verginale nel costume e nella pettinatura, Nicole Kidman lascia vibrare le inquietudini del suo personaggio che, ambiguamente angelico e beffardo, spinge gli ospiti a lavorare sulla capacità di accettarsi e di conoscere i propri limiti, fino all’idea di manipolare il tempo e la percezione del dolore. Il doppio binario tra la redenzione di Masha e la disintossicazione umana-sociale dei suoi “pazienti” si muove in un clima onirico, fiabesco e allucinante, con forti tinte di suspense debitrici di uno dei grandi tòpoi del mystery classico: dall’isoletta dei famigerati dieci piccoli indiani all’Orient Express dei gialli di Agatha Christie, l’archetipo letterario del gruppo rinchiuso all’interno di uno spazio si declina qui nella pace apparente di Tranquillum House, un resort di estetica perfezione, in cui, tra comodità e benessere, covano risentimenti pronti ad esplodere. 

Un grande cast quindi indebolito da un’architettura thriller che sbiadisce spesso in risoluzioni scontate che non riescono ad esprimere a pieno le dinamiche interpersonali, depotenziando il pathos che si potrebbe instaurare con lo spettatore. Ben confezionato, questo ipotetico romanzo/serie di formazione ci sembra un potenziale Bildungsroman con prove e percorsi interiori che non convince del tutto, una macchina che non riesce ad ingranare, ingolfandosi nel corso della narrazione e svelandosi come un viaggio, un racconto, una cura, suggestivi sì, ma non così efficaci, dopotutto.

Leonardo Pacini

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