Vermiglio
di Maura Delpero (Italia, Francia, Belgio)
con Tommaso Ragno, Giuseppe De Domenico, Martina Scrinzi
Concorso


Nel paese di Vermiglio, situato in Trentino, la numerosa famiglia del maestro (Tommaso Ragno) nasconde due disertori del secondo conflitto mondiale: un cugino e Pietro (Giuseppe De Domenico), un soldato siciliano. Lucia (Martina Scrinzi), una delle figlie maggiori, si innamora del forestiero e i due si sposano, mentre le stagioni si susseguono e la guerra termina. Il giovane allora torna a casa per rivedere i familiari, ma viene ucciso da una ragazza che aveva sposato prima di partire per il fronte. Lucia, però, è incinta. La seconda opera di fiction di Delpero, che aveva ricevuto una menzione speciale a Locarno nel 2019 con Maternal, è visivamente secca e austera, vive di inquadrature precise (fotografia di Mikhail Krichman) e poco luminose, nonostante spesso ci circondino la neve o i campi. Ma siamo in una valle di alta montagna e l’ombra regna, sia quella dei monti che quella della guerra, che da lontano sparge la propria influenza su tutto. È un film che ci mostra un altro mondo, quello del padre della regista che a Vermiglio ci è cresciuto: un mondo di famiglie con dieci figli, dove madri e figlie portavano avanti gravidanze in contemporanea, di classi di scuola con alunni che andavano dai 5 ai 20 anni, dove la scelta era tra l’acquisto di cibo per l’anima (un disco) o cibo vero, dove masturbarsi dietro a un armadio doveva essere espiato sdraiandosi su (o mangiando) sterco di gallina. Nonostante non si cerchi di edulcorare o romanticizzare quel mondo, il ritratto di famiglia che ne viene fuori, grazie a una sceneggiatura (sempre di Delpero) perfettamente calibrata e puntuale, che non disdegna momenti divertenti (ottimo su questo – e coraggioso – l’utilizzo che viene fatto del cast più giovane), scrollandosi di dosso con sicurezza quell’aura esageratamente seria e seriosa tipica dei film del genere, o ambientati in luoghi simili; citando la stessa regista: un film che “nella logica ferrea della montagna […] ogni giorno ricorda all’uomo quanto sia piccolo”, e allora perché prendersi troppo sul serio? E allora, mettendosi nei panni di Lucia, perché non fregarsene di quello che pensano gli altri della propria vita?


La stanza accanto
di Pedro Almodóvar (Spagna)
con Tilda Swinton, Julianne Moore, John Turturro
Concorso


Ingrid (Julianne Moore) è una scrittrice affermata che viene improvvisamente a sapere della grave malattia di Martha (Tilda Swinton), una reporter di guerra e sua vecchia amica che non sente da tempo. Decide dunque di andare a trovarla in ospedale, finendo col riprendere tutta la confidenza perduta, al punto che Martha le chiederà di assisterla nel momento in cui deciderà di farla finita.
Prima opera in lingua inglese della lunga carriera del regista, informazione buona solo come piccolo trivia, visto lo stile praticamente inconfondibile, il film è un’immersione all’interno di due vite (ma soprattutto di una, quella di Martha), riscoprendosi e rivangando sulla soglia della fine. Sarebbe tutto molto toccante, e in alcuni momenti lo è, se non fosse che la costruzione della sceneggiatura sembra incastrata a pedate in fretta e furia, con scene e informazioni di cui non sappiamo cosa farcene – si va dalla ingombrante sequenza sul padre della figlia di Martha a quella più piccola (e anche divertente) di Ingrid con il personal trainer – perché oltre a non darci niente di emotivamente coinvolgente, hanno anche l’involontario risultato di togliere credibilità alla storia. Così come ne toglie (molta) la ri-comparsa della Swinton nei panni della figlia di Martha, Michelle, che va bene essere uguali, ma uguali con parrucche diverse ci si domanda come possa essere sembrata una buona idea (e infatti risate nervose in sala), visto che se voleva essere un simbolo, tanto valeva fossero identiche. Così come ci è sembrato di notare superficialità nei dialoghi – e nelle situazioni create su cui essi si basavano – a volte stonati da far aggrottare le sopracciglia come, ancora, tutto il racconto sul padre o quello sui due carmelitani in guerra. Tutto questo, purtroppo, ha come conseguenza quella di non farci pungere dal dramma, certo c’è empatia ma tutto sommato siamo lontani, ci ha tenuti alla larga da quella storia personale e dalla fine dolorosa che stiamo vedendo. Da sottolineare il setting (la casa scelta come ultimo teatro) e i costumi (tutti quelli di Tilda Swinton probabilmente avranno effetto simile a quelli di Bella Baxter lo scorso anno), così come in fondo una maestria registica che vale comunque la pena vedere all’opera.


Anywhere anytime
di Milad Tangshir (Italia)
con Ibrahima Sambou, Moussa Dicko Diango, Success Edemakhiota
Settimana internazionale della critica


Issa è un giovane immigrato che, in assenza di documenti, cerca di sopravvivere come può. Perso il suo ultimo lavoro, viene aiutato da un amico con smartphone e nuova bicicletta a diventare un rider. Le speranze riaccese si spengono quando il mezzo gli viene rubato durante una consegna, dopodiché Issa farà di tutto per ritrovarlo.
Il primo lungometraggio di finzione di Tangshir, regista iraniano in Italia dal 2011, è già stato definito un moderno Ladri di biciclette. In effetti, sembra quasi un aggiornamento del classico di De Sica: i poveracci ora sono africani, non più attacchini comunali ma rider. Alcune scene, inoltre, sono più che semplici citazioni, come quella alla mensa per i poveri o quando finalmente ritrova il ladro ma viene mandato via dalla folla, questa volta semplicemente degli amici del malfattore e non più la numerosa folla del ’48. Ma sarebbe ingiusto dare poco riconoscimento all’autore. Anywhere anytime vive per sé stesso e convince. I dialoghi, scarni e convincenti, ci danno un’idea rotonda dei personaggi che escono dalla bidimensionalità che spesso è riservata ai protagonisti di opere simili. Il film è sì semplice, in un ordine cronologico classico, ma mai noioso, anche quando ci si sofferma sui silenzi che hanno il pregio di farci sentire tutto il dolore e la paura provati da Issa: solo, perso, con le spalle al muro. Come in Ladri, anche qui il protagonista viene, disperato, tentato dal commettere egli stesso quanto subito, e lo fa – in una delle sequenze registicamente più belle viste qui finora in tutto il festival -: ma mentre Antonio Ricci veniva salvato dal linciaggio dal pianto del figlio, Issa non ha familiari qui. Ma è anche un altro mondo, e a nessuno importa più se ti rubano una bicicletta. Quello che importa oggi, invece, è avere giustizia velocemente, sbattere il mostro in galera e non porsi domande sui problemi che affliggono gli ultimi. E importa soprattutto che questi rimangano tali, come ci sottolinea inesorabilmente l’ultima triste inquadratura di questo consigliatissimo film.

Federico Benuzzi