Col progressivo affievolirsi della società delle buone maniere postbellica, sia in senso woke (fino all’affettazione), sia in senso bully (fino alla superfetazione), è stata significativa una rilettura Il Gattopardo, sulla scorta anche di un recente Ricordo di Lampedusa di Francesco Orlando, che, scritto com’è da un allievo d’elezione, anche se non proprio apprendista stregone, del principone Tomasi di Lampedusa, si è dimostrato utile per poter meglio illuminare qualche residuo, o rimasuglio, del giusto mezzo prossemico e non solo.
Chiunque leggesse il resoconto dell’apprendistato letterario di Orlando presso Tomasi giunto a pagina 75 del Ricordo, forse si chiederebbe subito come abbia potuto un fautore delle buone obsolete maniere definire sonnifero Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, cioè l’antonomasia libraria di quelle (assieme ad una avversione, chiaramente riportata da Orlando, verso il nipote Ludovico dell’Alfonso Ariosto dedicatario del libro, oltreché verso tutta la letteratura italiana del Cinquecento, tranne Tasso, perché mancante di concretezza).
La risposta ce la darà lo zione Salina stesso, anche se in modo indiretto e, come nel Gattopardo accade spesso, attraverso una doppia mediazione, che afferma peraltro la trasmissione elettiva della lezione di savoir-faire – in senso di gerarchia sociale, ma anche di conquista personale – da Lui stesso (è sottinteso) a Tancredi e da questi ad Angelica.
L’aurea regola, Tancredi docet, è: “[…] guarda tutto e loda tutto; […] ma poiché non sei più una provincialotta che si sorprende di ogni cosa, mescolerai sempre una qualche riserva alla lode; ammira sì, ma paragona sempre con un qualche archetipo visto prima, e che sia illustre”.
Curioso e divertente sarà leggere come la popolana Angelica, appena trasformata da novella Angelina-Cinderella in baronessina Sedàra del Biscotto, più dai gretti maneggi di don Calogero suo padre che dalle invocazioni all’altissimo trono di un Alidoro filosofale, applicherà l’ipobole alla conversazione, a un dipresso dal gran ballo prenuziale di palazzo Ponteleone, in un divertentissimo capolavoro di understatement, che neanche Meghan Markle.
Favole a parte, sembra interessante accennare ad un altro punto, in cui la lezione da Tancredi ad Angelica somministrata viene ulteriormente specificata per bocca dello stesso Gattopardo: siamo alla conclusione del notorio colloquio pomeridiano tra il Gattopardo – zampaccia sopra una cupola alabastrina di S. Pietro, la cui croce al vertice sarà infine stroncata, con tutta la potenza allusiva alla non troppo lontana fatale breccia romana – ed il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, inviato ad offrirgli un seggio senatorio in seno al parlamento del Regno di Sardegna. Il principe ha già rifiutato l’offerta; Chevalley, dopo il lapsus freudiano, che lo induce a chiamare annessione quella che subito correggerà in fausta unione della Trinacria al Regno sabaudo, ha già riflettuto sulla miseria incontrata nella sua visita siciliana, ma vorrebbe, alzandosi dalla grande poltrona con sopra i ritratti aviti di Casa Salina, convincere il principe ad accettare il seggio, proprio al fine di dar ristoro a tale degrado.
Sorridendo e sedendoselo bonariamente accanto, il principe gli rifila un aneddoto: Garibaldi è quasi giunto a Palermo dove egli, don Fabrizio, ha portato a casa in visita, su richiesta loro, alcuni ufficiali inglesi dagli scopettoni rossi (sospetto radical di upper class di probabile origine scozzese, venuti a rimembrare un Grand Tour in declino, oltre che ad attuare dal vivo suggestioni libertarie mazziniane e tuttavia scoprendo l’Italy as it is, più che l’Italy as it is to be, per citare il titolo di due conferenze inglesi di Aurelio Saffi).
Quegli ufficiali hanno dunque osservato, oltre l’oleografia e la vetustà turistica, lo squallore ed il sudiciume delle sicule strade e, probabilmente, non solo di quelle, certamente riportando la stessa impressione di ‘paese sventurato’ che, nel suo viaggio del 1931 partito alla ricerca dei demi-dieux locali, Mario Praz riporterà dalla Grecia. Al Principe, gli ufficiali chiedono cosa veramente vengano a fare in Sicilia quei volontari italiani e la risposta del principe, perentoria quanto ironica, dato anche il sangue che già dall’impresa garibaldina gronda e che ci viene, con barocca e quasi necrofila precisione, mostrato fin dall’inizio del romanzo, è, in termini di galateo, straniante: ‘They are coming to teach us good manners’ (vengono a insegnarci le buone maniere). Ma il Principe non si limita a questo, risponde anche alle domande non poste che aleggiano (perché i siciliani non hanno buone maniere? E poi: riusciranno i garibaldini ad insegnargliele?): ‘But they wont succeed, because we are gods’ (non ci riusciranno, perché noi siamo dei).
Sono parole che ricordano la risposta di Tomasi, da Orlando riportata a pag. 64 del suo testo, ad un ecclesiastico inglese, che s’informava sulla sua appartenenza alla chiesa alta o a quella bassa. I am of the Highest Church. Chi pensasse ad un superomismo del Gattopardo principesco sarebbe tuttavia subito smentito sia dal principone, che da chi non sospetterebbe. Siamo al Novembre 1860, capitolo quarto del Gattopardo: il nobile animale si è oramai rassegnato al contatto con lo sciacallo Sedàra. I cortesi zeffiri rococò dei “per piacere”, “ti sarei grato”, “mi faresti un favore”, “sei stato molto gentile”, da cui era stato fino ad allora assai superficialmente vellicato, possono finalmente spirare sui poco rousseauiani scrupoli del cognato del ‘sarvaggio’ Peppe Mmerda, padre di donna Bastiana, talebanizzata mamma di Angelica. Cosi lo sciacallo, pur muovendosi nella foresta della vita con la devastante incuria di un elefante, ha, almeno parzialmente, modificato il suo immaginario sulle caratteristiche e gli insegnamenti del nobile-pecora, sua preferita preda a cui divorare latifondi e patrimoni aviti.
Scopriamo alla fine che gli zefiretti cortesi hanno i loro effetti moderatori perfino sugli impetuosi venti del sindaco di Donnafugata, in uno splendido discorso libero ed indiretto in cui Tomasi – Salina ci dice che non sarebbe equo tacere (litote per sarebbe giusto dire, ma dirlo equivarrebbe quasi a non sfiduciare l’ingiusto) come siano proprio le buone maniere, ovvero le forme della politeness che fanno sì della società un teatro di posa, ma tentano anche di evitare, o malcelare, che sia una giungla predatoria, ad aver sortito sul Sedàra il liberatorio effetto di fargli apparire i suoi maneggi un profittevole altruismo, disincantato ossimoro, in cui l’efficacia sardonica dell’aggettivo conforta l’inutilità del sostantivo.
Sedàra ha appreso, ad altrui spese naturalmente, quanto un blando “non mi sono spiegato bene” piuttosto che un drastico “non hai capito un corno” possa essere profittevole, e di molto, sia all’affare quanto più al malaffare. Che l’understatement possa ben celare gli arcana imperii spiega dunque perché abbia avuto lungo corso nella storia naturale dell’uomo anche prima della società di corte. Non dobbiamo necessariamente rifarci ad Austin, Searle, Habermas, Grice, Elias, Foucault o a Goffman, ma probabilmente alla prima formula di cortesia pronunciata a Neanderthal. Altra storia è se presto DeepSeek o ChatGPT genereranno il video tutorial delle cattive maniere per l’e-learning della futura etica. Probabile titolo: LA SOCIETÀ DELLA SEGA ELETTRICA.
Nicky Kelly
