Come già noto, è “Time of Liberations” il titolo della diciottesima edizione di Archivio Aperto, il festival di Fondazione Home MoviesArchivio Nazionale del Film di Famiglia, che quest’anno si terrà, con un po’ di anticipo rispetto alle ultime annate, dal 26 al 30 settembre. “Tempo di liberazioni”, singolare il primo e plurale il secondo; perché se di tempi accettabili per essere liberi ce n’è uno solo ed è il presente, di liberazioni ce ne possono essere numerose: personali, collettive, sociali, o politiche. Che sia dal patriarcato o da un regime autoritario che si protende nell’oggi, del sé o dal colonialismo, dei corpi – di qualunque ramo della sistematica facciano parte -, da ingiustizie economiche o sociali, l’atto di liberazione non richiede di avere una singola direzione ma, anzi, per sua natura protende alla pluralità e all’intreccio. Questo programma/manifesto issato da Archivio Aperto vede i suoi rami, alla ricerca di libertà, toccare, ovviamente, anche il cinema, nella celebrazione di un’arte che si spera l’industria renda meno soffocante: più povero forse, ma più libero.

Una programmazione che porta a Bologna, tra il Cinema Lumière, l’Ex Chiesa di San Mattia e numerosi altri spazi, film da tutto il mondo – compresi territori di guerra come i tristemente noti Ucraina e Palestina – costruiti anche grazie all’utilizzo di materiale proveniente dagli archivi più eterogenei, dai familiari agli storici, da quelli di Stato agli artistici. Non mancheranno le sezioni monografiche che riguarderanno, per citarne alcune, la cineasta avant-garde franco-peruviana Rose Lowder – che sarà ospite a Bologna – in “La Natura dell’Archivio”, il filmmaker underground statunitense Kenneth Anger – da noi noto quasi esclusivamente per i suoi due volumi intitolati “Hollywood Babylon” – all’interno di “Storie Sperimentali”, e lo Stato del Mozambico in “L’archivio che non c’è”, nel cinquantesimo anniversario della liberazione dello stato africano.

Perno centrale del festival è il concorso ufficiale, di cui fanno parte dieci lungometraggi e otto corti, per portare lo spettatore in giro per il mondo, ad ascoltare e vedere storie grandi, come la divisione di uno Stato e la politica anti-comunista intrapresa da una delle sue sezioni, o come la colonizzazione centenaria di un territorio, e singole biografie e sguardi sulla vita e le idee di una persona, come uno scienziato e i suoi esperimenti a base di droghe psichedeliche, o come una spia dal ruolo cardine durante la Seconda guerra mondiale e la sua vita dopo l’eroismo dimenticato. Tutto però, che si tratti dell’immenso o del minuscolo, parla di noi e di quello che abbiamo attorno, partendo da documenti d’archivio filmati.

Cabiriams sarà, per il terzo anno consecutivo, media partner dell’evento, del quale seguiremo tutta la programmazione con una copertura ancora più ampia, dal concorso principale alle sezioni parallele. Qui di seguito una breve introduzione dei titoli in concorso nella sezione lungometraggi, in ordine sparso:

John Lilly and the Earth Coincidence Control Office, di Michael Almereyda & Courtney Stephens, produzione USA

La vita di John Lilly ha attraversato tutto il Novecento, arrivando a noi come un neuroscienziato visionario che ha esplorato i limiti della coscienza. Nel film, impreziosito dalla voce narrante di Chloe Sevigny, ci vengono mostrati i momenti salienti di questo suo viaggio, durante il quale finì col fondare l’Earth Coincidence Control Office a conclusione della sua ricerca avvenuta tramite l’uso di sostanze allucinogene, controversi esperimenti coi delfini e la “isolation tank”, da lui creata. Lilly dichiarò che esisteva un ordine nelle connessioni apparentemente casuali presenti nella vita umana al punto da teorizzare una struttura gerarchica delle entità cosmiche. Una figura le cui idee, per quanto eccentriche, risuonano nel dibattito contemporaneo riguardante la comunicazione, l’intelligenza artificiale e la natura della realtà.

The Sense of Violence, di Kim Mooyoung, produzione Corea del Sud

Un documentario a cavallo tra video saggio e found footage che, utilizzando materiale d’archivio vergine, newsreels e immagini architettoniche, esamina la costruzione e il persistere dell’ideologia anti-comunista in Corea del Sud. Attraverso l’uso di varie fonti mediali dunque, il film esplora come l’opinione pubblica viene costruita e rinforzata, focalizzandosi sui prodotti di propaganda dell’era delle leggi anticomuniste e su quelli ri-editati dalla censura, riflettendo sul potere delle immagini. Importante è il focus sulle scene di guerra: le immagini di violenza venivano spesso oscurate o edulcorate attraverso narrazioni farcite di sentimenti di superiorità morale, all’interno di ritratti pseudo-artistici.

Partition, di Diana Allan, produzione Libano, Canada e Palestina

Un’opera densa, potente, poetica. Un esperimento composto dalla fusione di filmati d’archivio dell’occupazione britannica della Palestina – muti per natura – con l’audio registrato dei rifugiati palestinesi in Libano. L’occhio coloniale, alto, vigile e controllante delle pellicole provenienti delle collezioni imperiali, si posa per qualche istante sulla folla o su singole figure, sfiorando storie mai raccontate. L’opera vede nel montaggio e nelle scelte di posizionamento del suono l’elemento per esaminare queste due parti, così distanti ideologicamente. Voci, suoni, musiche, aggiunte e spostamenti, per ridare essenza e giustizia a chi non è mai stato presente nella storia se non dalla parte degli sconfitti e dei dimenticati.

The Big Chief, di Thomasz Wolski, produzione Polonia, Paesi Bassi, Francia

Un’immersione nell’enigmatica figura di Leopold Trepper, un comunista ebreo-polacco ed ex ufficiale dell’Armata Rossa, noto per aver ideato la rete di spionaggio anti-nazista conosciuta come Red Orchestra durante la seconda guerra mondiale. Grazie a un lavoro svolto per diversi anni in archivi di tutto il mondo, siamo in grado di seguire il viaggio di Trepper dall’essere un eroe di guerra al diventare un reietto nella Polonia degli anni ’70. Dopo essere tornato a Mosca al termine della guerra, Trepper fu arrestato e imprigionato per un decennio dal regime di Stalin per poi essere vittima, al suo ritorno in patria, di antisemitismo. Un’impressionante relazione, sotto forma di film che non ha niente da invidiare al genere thriller, sul controllo della narrazione pubblica da parte dei regimi totalitari.

Videohaven, di Alex Ross Perry, produzione USA

Opera di durata – e non solo – fluviale, Videoheaven analizza l’ascesa e la caduta del videonoleggio di quartiere come fondamentale spazio per la diffusione della cultura cinematografica, oltre che come figura mitica e fondante per le generazioni che sono cresciute tra gli anni ‘80 e gli anni ‘10 del 2000. Il film è composto da spezzoni proveniente da fonti di svariata natura come produzioni hollywoodiane, film a basso budget, programmi televisivi, spot pubblicitari e video musicali, accomunati dall’avere al proprio interno scene ambientate nei “video shop”. Narrato dalla voce ironica e inconfondibile di Maya Hawke, il film approfondisce anche l’impatto di catene aziendali come Blockbuster e la presenza della pornografia all’interno di questi spazi.

Holofiction, di Michal Kosakowski, produzione Germania

Un film che è già tutto nel titolo, crasi di “Holocaust” e “fiction”, ma che dietro l’apparente semplicità di concetto nasconde un lavoro monstre alle spalle. Holofiction esplora infatti quel pozzo inestinguibile che è la rappresentazione visiva dell’Olocausto, attraverso il montaggio di migliaia di estratti di film di finzione e serie televisive prodotti nell’arco temporale che intercorre tra il 1933 a oggi. Un esame critico su come le immagini utilizzate per rappresentare tale avvenimento storico siano prima state assunte, codificate e poi riprodotte al cinema, mostrando motivi ricorrenti e modelli narrativi che sono diventati iconici.

Seafarers (Skönärit), di Milja Viita, produzione Finlandia

Altra interessante opera collage, il cui materiale è costituito da filmati girati tra gli anni ’60 e ’90 a bordo delle navi direttamente da marinai, gli skonarit, che mostrano duro lavoro e condizioni di vita difficili, ma anche un forte senso di comunità. La sceneggiatura del film è stata scritta partendo dalle lettere di Jalmar Yrjänen, un giovane che salpò dalla Finlandia a inizio Novecento e che raggiunse tutti gli angoli del mondo, oltre che su diari di bordo, telegrammi, articoli di giornale e interviste con i marinai condotte dalla regista. La figura di Jalmar diventa quindi un raccoglitore di voci ed esperienze – toccando anche questioni come la globalizzazione e il colonialismo – di cui si fa portatore in quanto narratore del film, trovando il proprio posto tra i marinai, finché l’avventura non si trasforma in tragedia.

Museo de la noche, di Fermín Eloy Acosta, produzione Argentina

Nel 1968 l’artista argentino Leandro Katz assiste, in un cinema pornografico di New York, a uno spettacolo del Theatre of The Ridiculous dove gli attori si denudano recitando testi che mescolano l’alta letteratura con lo slang queer. Affascinato, Katz decide di diventarne un collaboratore: per anni scatterà fotografie e creerà opere sperimentali su pellicola. Ma nel ‘76 la collaborazione termina, lasciando un vuoto. Il film utilizza le registrazioni, fotografie, diapositive e negativi di quegli anni per portare alla luce un film incompiuto che si credeva perduto.

The Found Photo (La photo retrouvée), di Pierre Primetens, produzione Francia

Le immagini appartenenti alla famiglia Primetens sono andate perse o distrutte. Sembrerà strano allora sapere che il film dipinge la vita del regista e narratore, partendo da questa mancanza di base. Eppure questa opera intima, priva di immagini personali, scavalla – e supera il trauma di – questa assenza prendendo in prestito immagini amatoriali d’archivio appartenenti a persone diverse, come compleanni, matrimoni o vacanze. L’esperienza personale della ricerca di identità diventa così, nel film più Home Movies in concorso, memoria collettiva.

Special Operation (Spetsialna Operatsiia), di Oleksiy Radynski, produzione Ucraina, Lituania

L’operazione speciale è quella che per cinque settimane, nel 2022, ha portato all’occupazione militare russa della centrale nucleare di Chernobyl. Il materiale con cui è stato assemblato il film è composto interamente da file provenienti da telecamere a circuito chiuso del sistema di videosorveglianza dell’impianto. Un’opera cruda e surreale, che non dà spazio a interviste, narrazione o drammatizzazione, dando così sostanza, materia e banalità alle attività degli invasori.

Federico Benuzzi