Siamo in Virginia del Sud, durante il terzo anno di guerra civile, nel 1864. Mentre le truppe nordiste e sudiste si scontrano, in un collegio femminile, sospeso nello spazio e nel tempo, si susseguono le giornate di alcune giovani ragazze, tra noia e rassegnazione per una guerra ormai persa, ma ancora lontana dal concludersi.
L’equilibrio della casa crolla quando una delle giovani studentesse raccoglie nel bosco un morente soldato Yankee di nome John e lo porta nella villa in modo che sia curato.
Dopo l’inciampo di “The Bling Ring”, Sofia Coppola torna agli antichi splendori con questa riscrittura de “la notte brava del soldato Jonathan” di Don Siegel del 1971, riuscendo a trasmettere il delicato e precario equilibrio dei sentimenti umani, soprattutto quelli femminili.
Con una sensibile attenzione a luci e colori virato sui toni del bianco, in contrapposizione con gli animi scossi e contaminati dalla guerra, la Coppola mette in atto un difficile gioco di identificazione, dove lo spettatore non riesce a immedesimarsi in nessuno dei personaggi, tutti ambigui e dominati da dubbia morale: ci si chiede perché compiano determinate azioni fino a giungere alla conclusione che la forza motrice per ognuno è un individualismo bieco e sottile; infatti l’arrivo del caporale John è solo un pretesto che mina una situazione di profondo disagio, basato sulla gelosia e sull’apparenza che emerge man mano e che appartiene universalmente a tutte le protagoniste.
Miss Martha è la più anziana della casa, la donna matura che reincarna la perfetta donna vittoriana: dedita alla cura delle ragazze che ha sotto la sua protezione, soffre in silenzio per la morte del marito in guerra, colmando questo suo vuoto con la preghiera e l’eccessivo attaccamento alla morale cristiana.
Miss Edwina sogna un amore che non ha mai avuto, costretta a portare a termine compiti che non riescono a valorizzarne la statura morale e intellettuale, mentre Alicia, la più piccola delle protagoniste, sembra non interessarsi alle attività svolte dalle sue coetanee, ma aspira ad essere già una donna matura.
I personaggi femminili vivono in un grande collegio situato in una villa in stile coloniale – dominata da un rigore e armonia stilistica – che, però, in netta contrapposizione con la sua architettura, è un luogo malsano dove ognuna è castrata psicologicamente e costretta ad essere l’opposto di quella che è in realtà, aspetto che rende la pellicola ben lontana da essere un manifesto femminista, ma anzi dimostra come dietro l’apparenza sicura e il carattere forte di certe donne si nascondano fragili traumi che riemergono nonostante sembrino superati.
Il mondo che si costruiscono è totalmente fittizio, non contaminato dalla guerra, ma neanche reale, il che le rende quasi atrofizzate dall’esistenza che trascorrono, aspettando un futuro che in realtà non riescono neanche a immaginare.
L’uomo protagonista – un Colin Farrell perfettamente aderente alla parte – è perdente, non solo reduce da una guerra che non sente sua, combattendo solamente per denaro, senza sposare nessun ideale, ma anche impotente di fronte alle conseguenze dell’amore e che per questo infatti viene punito.
Nonostante l’incomunicabilità sia uno dei leitmotiv del film, essa non diventa un elemento centrale come in “Lost in translation”, ma fa da sottofondo a una combinazione di castrazione, repressione e desiderio, che si alternano trascinando lo spettatore in un vortice di emozioni difficile da gestire e che lascia l’amaro in bocca per la sua universalità e attualità.
Cristina Bagnasco