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Alfredo Jaar, artista cileno nato nel 1956 e da sempre attivo sul tema dell’arte politica e di denuncia, nel 2013 crea una mostra site-specific alla fondazione Merz di Torino dove impera tra tutte l’enorme istallazione “abbiamo amato tanto la rivoluzione”.

Posizionata nella sala centrale della fondazione – che ricordiamo essere un’ex fabbrica Lancia, quindi dall’aspetto di un hangar più che di uno spazio espositivo – quest’opera si compone di due parti: la prima una grossa scritta neon “abbiamo amato tanto la rivoluzione”, eco del titolo di un libro di Cohn-Bendit mentre la seconda parte si estende su tutto il pavimento antistante il neon e consiste in un oceano di vetri rotti, su cui il pubblico può camminare.

Il silenzio che accoglie lo spettatore in un primo istante è disarmante però dal momento in cui ci si muove sui vetri si trasforma in un rumore opprimente, quasi insopportabile. Abbiamo amato tanto la rivoluzione” che oggi dov’è, dove è finito il senso di lotta e partecipazione, tanto caro all’artista, degli anni Sessanta/Settanta?

Tutto sembra essersi ridotto in mille pezzi, a delle macerie che simboleggiano la caduta morale e culturale della nostra società , una società della stanchezza per dirla con le parole del filosofo Byung-Chul Han che ha rinunciato a tutto ma prima di tutto alla lotta e impegno politico e sociale.

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Lo spettatore diventa parte dell’opera, sente urlare queste macerie che scricchiolano sotto i suoi piedi, schiacciati più che da un senso di pesantezza da un senso di indifferenza che dovrebbero indurlo alla riflessione sul decadimento intellettuale contemporanea.

Decadimento richiamato da Jaar in un’altra opera sita nella città di Torino e appartenente alla collezione “Luci d’artista” che vengono esposte nel capoluogo piemontese durante il periodo natalizio: un semplice neon con la scritta “CULTURA = CAPITALE” che trionfa sulla facciata frontale della biblioteca nazionale di Torino.

La semplicità e linearità delle opere di Jaar sottolineano senza giri di parole una necessità costante di una presa di coscienza, di come la cultura sia la salvezza e possa costituire un vero e proprio capitale emotivo, economico e sociale e che le rivoluzioni degli anni Sessanta/Settanta sì, ormai sono un bel ricordo, ma il ricordo deve essere mantenuto vivo e ricordato traslando da un piano all’altro l’obiettivo finale inneggiando a una sola cosa possibile oggi: la rivoluzione culturale.

Cristina Bagnasco