Bentornati cari lettori ad un nuovo appuntamento con la rubrica InsideArt. Oggi tratteremo di un caso particolare nella storia dell’arte, ovvero la vicenda dello scultore Franz Xaver Messerschmidt (1736-1783), le cui opere costituiscono un punto d’incontro tra arte e psicologia. La sua fama è legata a 69 busti, le cosiddette “teste di carattere”. Gli inquietanti busti sono, probabilmente, frutto di un animo tormentato, ed è quindi interessante ripercorrerne la vicenda biografica.
Messerschmidt nacque nel 1736 a Wiesensteig, una piccola località delle Alpi Sveve, figlio di una numerosa famiglia artigiana. Trascorse la sua infanzia a Monaco di Baviera presso zii materni: Johann Baptipt Straub, scultore di un certo calibro, fu il primo maestro. All’età di 16 anni iniziò a frequentare l’Accademia di Belle Arti di Vienna, dove le sue qualità non passarono inosservate e molto presto ricevette le prime commissioni imperiali, lavorando per l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo e per il marito Francesco I d’Asburgo-Lorena. Nel 1774 gli fu negata la nomina a professore presso l’Accademia delle Belle Arti. Ed è forse proprio questo rifiuto la causa della sua alienazione. Nel 1777 si trasferì presso il fratello a Bratislava. La sua presenza qui non passò inosservata; infatti, in molti cercarono di mettersi in contatto lo scultore, ma senza successo. Messerchmidt viveva un’esistenza eremitica. Tuttavia, un resoconto sull’opera e sulla mente dello scultore ce lo ha lasciato lo scrittore tedesco Friedrich Nicolai, uno dei pochi fortunati che ebbe la possibilità di incontrare l’artista.
Messerschmidt, stando alle parole di Nicolai, credeva nell’esistenza degli spiriti. Questi erano particolarmente insolenti e infastidivano continuamente lo scultore. Il più molesto era lo spirito delle proporzioni, che di notte lo spaventava e lo tormentava. Il motivo di questi dispetti era che lo scultore aveva elaborato una teoria della proporzione, svelando alcuni segreti inconfessabili. Lo spirito, geloso delle scoperte dell’artista, gli infliggeva dolori in varie parti del corpo. Ma, per contrastare le angherie dello spirito, Messerschmidt escogitò un strano metodo, ovvero quello di pizzicarsi nel costato e fare delle smorfie davanti a uno specchio.
Dalla persecuzione demoniaca nascono così le teste di carattere. Secondo l’artista esistevano 64 varietà di smorfie. Alla sua morte, nel 1783, lasciò 69 busti, di cui oggi se ne conservano 38. La maggior parte dei busti furono eseguiti in piombo, pochi sono in marmo e alabastro e soltanto uno in legno. Tutti hanno un modello comune, vale a dire l’artista stesso.
Un’attenta lettura delle opere di Messerschmidt fu eseguita da Ernst Kris, storico dell’arte e psicoanalista. Egli loda lo scultore per le sue qualità artistiche, ma un punto vista psicoanalitico lo definisce, invece, uno schizofrenico, individuando nei busti i sintomi del “delirio paranoico”. Per lui i busti costituiscono “un processo di autoguarigione”, dove l’artista si libera della presenza del demone, grazie alla realizzazione dell’opera. E quindi le sculture rappresentano la materializzazione di un altro sé che viene imprigionato nell’opera.
Rilevante nel saggio di Kris è l’analisi dell’ossessione sessuale e della castità di Messerschmidt. La castità è la causa delle sue visioni demoniache; il demone della proporzione, infatti, era solito provocare forti dolori nel basso ventre all’artista. Allo stesso modo, come nota Kris, Messerschmidt tende a scolpire le labbra serrate e ritratte quale rifiuto dell’intimità. Per lo psicoanalista, i muscoli attorno alla bocca rappresenterebbero in Messerschmidt “una cintura di castità”. Su questa specifica tematica, Kris si è basato essenzialmente sulle famosissime “teste a becco”, che sono forse le più enigmatiche tra i busti dell’artista. Lo scultore aveva, infatti, un rapporto del tutto particolare con queste, ne era molto angosciato e le teneva separate dalle altre.
L’opera di Messerschmidt è incredibile poiché non solo affascina lo spettatore, trasmettendo empatia e travolgendolo con fortissime emozioni, ma solleva degli interrogativi sul rapporto tra opera d’arte e creatore, sulla relazione tra disturbi psicologici e produzione artistica e sulla validità dell’applicazione dei principi teorici della psicoanalisi a un contesto artistico. Un elemento certo è, invece, il fatto che l’arte costituisca uno strumento di cura.
Tommaso Amato