1907, Parigi, Musée d’Orsay
«[…] davanti alle sue opere la gente si accalca, e risuonano le risate. E’ il più terribile dei vicini […] è l’alfa e l’omega della pittura, ed è così sconcertante che le convinzioni più radicate si arrestano esitanti dinanzi a tanta sicurezza di sé e a un candore così infantile.»: in questo modo un giovane Félix Vallotton, grande nome dei Nabis, nel 1891, descriveva la prima opera a tema “giungla” di Rousseau (cfr. Sorpresa!, Londra, National Gallery), portando al contempo la più magistrale definizione dell’intero spirito dell’artista.
Henri-Julien-Félix Rousseau, detto “il Doganiere” (che già non era un doganiere ma un gabelliere del dazio francese), nacque il 21 maggio 1844 a Laval, nella Francia dell’ovest, spegnendosi a Parigi il 2 settembre 1910, incalzato fino all’ultimo dai debiti, da un amore non corrisposto e dalle nuove, tardive commissioni per i suoi quadri.
La sua vita all’insegna della pittura, dapprima soltanto una sua ambiziosa passione, sarebbe sbocciata ormai al tramonto della sua esistenza, nell’anno della sua pensione, il 1893. Non era però nuovo al panorama artistico francese: già dal 1886 esponeva, ridicolizzato dalla critica e deriso dal grande pubblico, al Salon des Indépendants, su primo invito del grande puntinista Paul Signac. Il Doganiere non avrebbe mai smesso di inseguire il suo sogno artistico, presenziando ad ogni edizione del Salon e riuscendo, nell’indifferenza generale riservata alle sue opere, a trovare apprezzamenti di illustri personaggi della vita artistica francese come Camille Pissarro, Odilon Redon e, appunto, Vallotton.
Nonostante la modernità del proprio fare artistico, Rousseau non si considerò mai né un ribelle né tantomeno un “diverso”: non era un genio solitario, del tutto infantile e illetterato come vorrebbe la leggenda. Al contrario, ammirava ed era vicino ai grandi nomi dell’arte pompier (o arte accademica, ufficiale, mitologica e storica) della Terza Repubblica di Francia, nomi che al tempo rappresentavano il non plus ultra del panorama estetico nazionale, oramai semi-dimenticati: Jean-Léon Gérôme, Félix Clément (suo vicino di casa) e William-Adolphe Bouguereau.
Era proprio il riconoscimento ufficiale ciò che quel “povero vecchio angelo” (come lo ebbe a definire il suo grande amico e sostenitore Guillaume Apollinaire) rincorse per tutta la vita, senza mai ottenerlo. Ironia della sorte, l’unico riconoscimento accademico lo ottenne non per la sua pittura, ma per la composizione di un valzer, dedicato alla moglie, Clémence. E, nonostante l’esaltazione assoluta che venne riservata a Henri Rousseau negli ultimi anni della sua vita dai più giovani “ribelli dell’arte” (si vedano artisti e letterati come Pablo Picasso, Robert Delaunay, Vassilij Kandinskij, Ardengo Soffici, Franz Marc e altri), esaltazione che sarebbe poi cresciuta ulteriormente negli anni successivi alla sua scomparsa, egli non si sarebbe mai staccato dal suo sogno accademico. Ma è il grande valore di modernità dell’arte di Rousseau che i grandi artisti del nuovo secolo vollero celebrare: con un banchetto, per la precisione, allestito presso l’atelier di Picasso al Bateau-Lavoir nel 1908, dopo che l’artista spagnolo ebbe acquistato una tela del Doganiere (cfr. Ritratto di Donna, 1895, Parigi, Musée Picasso).
E ancora una volta, nonostante tutto, la chiave di questa sua modernità, la sua naiveté tanto amata dai giovani, stette nel consiglio che gli diedero i grandi della pittura pompier accademica: conservare la propria ingenuità.
Prima di analizzare L’Incantatrice di Serpenti, a mio avviso la più rappresentativa opera per comprendere la poetica del Doganiere, vediamo in quali circostanze avrebbe esposto questa tela al pubblico.
Nel 1905, Rousseau partecipava per la prima volta al Salon d’Automne (il nostro bistrattato protagonista si muoveva sempre in allestimenti lontani dall’ufficialità del vero e proprio Salon), l’anno dell’epocale mostra che avrebbe consacrato le belve, i Fauves, gli espressionisti francesi. Un termine, belve, che il critico Louis Vauxcelles trasse dalle fiere presenti entro le tele di Rousseau.
L’anno dopo, una memoria di Maurice de Vlaminck descriveva le usuali reazioni alle opere esposte: «Un pubblico ilare si teneva i fianchi dal ridere davanti alle tele di Henri Rousseau. Lui, sereno, infagottato in un vecchio soprabito, fluttuava nella beatitudine.». Ridicolizzato e povero, il Doganiere rimaneva caparbio nel suo sogno.
Infine nel 1907 il Doganiere espone per l’ultima volta al Salon d’Automne, con L’Incantatrice di Serpenti, realizzata lo stesso anno su commissione della madre dell’artista Robert Delaunay, Berthe de Rose. Ancora una volta ammirato dai più giovani e bistrattato dalla moltitudine, è disprezzato anche dallo stesso presidente del Salon, Franz Jourdain, che relega i quattro quadri presentati in una sezione molto appartata del grand Palais. Henri continua a faticare sull’orlo della povertà, ma non smette di sognare ed esporre. L’Incantatrice di Serpenti è la migliore rappresentazione di questo sogno ostinato: foreste primordiali, figure oniriche e bestie selvagge popolano il dipinto, facendo crescere la leggenda secondo la quale Rousseau avrebbe trascorso due anni nell’esotico Messico, indagandone la flora e la fauna. Così non era: come un Emilio Salgari della pittura, Rousseau immaginava e dipingeva le sue giungle senza mai uscire dalla città.
La sua grande fantasia si alimentava con costanti visite al Museo di Storia Naturale, allo zoo e al Jardin des Plantes: «Quando entro in quelle serre e vedo quelle strane piante provenienti da paesi esotici, mi sembra di entrare in un sogno.», dirà il buon Doganiere: ispirato e affascinato da tali visioni esotiche, l’artista le rielaborava meticolosamente in studio, dando loro forma e dettagli entro le sue composizioni. La scena che ci presenta in questa tela mostra un’innovativa visione del paradiso terrestre: una Eva nera, entro un oscuro giardino magico, eppur non minaccioso, come non lo è nemmeno il serpente (tradizionalmente tentatore), che incanta con la musica del suo flauto l’intera foresta. I colori sono chiari e densi e le forme definite con minuzia, dai marcati contorni. Qui la donna non è più la femme fatale simbolista, bensì una Venere esotica che ferma la notte entro un incantevole silenzio. Un’atmosfera che anticipa di netto le suggestioni surrealiste: André Breton stesso, fondatore del movimento, era un acceso ammiratore di Rousseau, tanto che lo definirà l’inventore del “Realismo Magico” (movimento che vedrà protagonisti anche i nostrani Carlo Carrà e Felice Casorati, debitori all’arte del Doganiere). Non a caso, il surrealista romeno Victor Brauner omaggerà direttamente l’artista nel 1946, rielaborandone L’Incantatrice di Serpenti con l’inserimento di una bianca figura assurda e inquietante (cfr. L’incontro di rue Perrel n.2 bis (L’incantatrice Conglomeros), 1946, Parigi, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris).
Tra le fonti iconografiche utilizzate da Rousseau per realizzare la composizione non si può non citare il cosiddetto Album des bêtes sauvages, volume di illustrazioni popolari di animali, dal quale aveva sicuramente tratto, fra le altre, la figurazione della Spatola di fiume, l’uccello roseo posto sulla sinistra. Indubbiamente anche i racconti di Rose de Berthe riguardo i suoi viaggi in India dovevano aver sprigionato l’estro creativo del Doganiere.
Fu proprio grazie all’Incantatrice che arrivò il successo postumo di Rousseau. Wilhelm Uhde, storico e mercante d’arte, redasse la prima monografia dell’artista nel 1911, dopo essersi appassionato alla sua opera grazie proprio a Berthe de Rose. Monografia che lo consacrò anche tra i ranghi del Blaue Reiter monacense. Dirà infatti un entusiasta Kandinskij: « che uomo meraviglioso era questo Rousseau! […] Qui c’è la radice del realismo, del nuovo realismo!».
Già Alfred Barr coglieva, allestendo la sua mostra al MoMA del 1936 Cubism and Abstract Art, ponendo il Doganiere come una fonte essenziale al Cubismo, il legame tra uno dei fondatori del movimento (Picasso) e la visione estetica di Henri Rousseau: «ci vuole molto tempo per diventare giovani», diceva appunto Picasso. E giovane, se non infantile, il Doganiere lo era sempre stato.
Ho avuto modo di vedere questa splendida opera assieme a molte altre alla mostra “Henri Rousseau il Candore Arcaico” presso il palazzo Ducale di Venezia nella primavera del 2015, il cui catalogo mi è risultato essenziale nella stesura dell’articolo.
Francesco Bergo