Narratore attento della realtà urbana, il fotografo Lee Friedlander ci racconta l’America del tempo attraverso il suo linguaggio, fatto di riflessi e sovrapposizioni, forti contrasti, di situazioni ordinarie e quotidiane dalle quali ne coglie il bizzarro e l’inquietudine.

Ci troviamo in America, intorno agli anni ’60, periodo in cui un nuovo mezzo di comunicazione inizia ad entrare nelle case dei cittadini. Si tratta della televisione, che il fotografo americano decide di usare come protagonista della sua serie Little Screens, realizzata tra il 1962-63.

Lo sguardo di Friedlander ci presenta ambienti desolati e spogli, interni di stanze dai forti contrasti chiaroscurali, la cui presenza umana è segnata soltanto dai volti illuminati degli schermi.

Personaggi ritagliati e deformati dall’ovalità dello schermo, occhi grandi che emergono isolati nella stanza, si inglobano nell’ambiente, come parte dell’arredamento, cambiando allo stesso tempo l’atmosfera percepita di quel luogo.
La totale assenza di figure e tracce umane, rafforza l’asetticità degli ambienti, direzionando il nostro sguardo verso l’unica effettiva presenza: l’immagine televisiva.
Non essendoci lo spettatore, il mezzo perde la sua funzione e si trasforma in un voyer che scruta nelle stanze, intrappolato nella scatola luminosa.
Tutto viene ribaltato.I luoghi prendono la bidimensionalità e la freddezza del nuovo mezzo, mentre i volti incastrati negli schermi diventano umani e attivi nell’ambiente.

Attraverso questi interni statici, Friedlander ci racconta il suo punto di vista su quella che era un’America in trasformazione, agli esordi del consumismo, ricca di città in fermento, prendendo come traccia la solitudine, l’assenza di vita nelle case che si è trasferita in presenza nel caos delle strade.

Egli documenta in modo unico il paesaggio sociale americano raccontando le persone e i luoghi che lo circondano, realizzando immagini dalla composizione dinamica, unendo in un perfetto equilibrio inquietudine e ironia.

Maria Brogna

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