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Diretto da Matteo Rovere, Il Primo Re è una rivisitazione del mito di Romolo e Remo, interpretati rispettivamente da Alessio Lapice e Alessandro Borghi, con la conseguente fondazione di Roma, avvenuta nel 753 a.C. Ci troviamo, però, durante il periodo precedente la fondazione della capitale, quando il mito doveva ancora diventare mito e, forse, non era nemmeno così leggendario.

La pellicola comincia con l’esondazione del Tevere in cui vengono travolti Romolo e Remo, i quali si ritrovano senza più terreni né popolo, vengono così catturati dalle genti di Alba e sono costretti a partecipare a duelli nel fango, dove lo sconfitto viene dato alle fiamme. I due fratelli riescono, però, a scatenare una rivolta, intraprendendo un viaggio all’interno di una foresta definita “maledetta” insieme agli altri fuggitivi e a una vestale che porta un fuoco sacro. Mentre Romolo tenta di riprendersi da una brutta ferita, Remo conquista la leadership del gruppo, dando prova di coraggio e di valore.

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E’ una delle operazioni più coraggiose e originali del recente cinema italiano, partendo dal presupposto che la lingua utilizzata nei dialoghi è una sorta di protolatino, antecedente a quello arcaico, reinventato con l’ausilio di specialisti dell’Università La Sapienza, inserendo elementi linguistici indo-europei. A questo si deve la scelta di inserire dialoghi asciutti, semplici, mai complessi nel corso dell’intero film.

Rovere riesce a portare sul grande schermo un cinema di petto, di stomaco, un cinema di ambientazione misto tra mito e storia, tra carne e sangue, tra sudore e fatica. Ma il merito del regista va in parte condiviso con il magistrale lavoro compiuto da Daniele Ciprì per la fotografia. Una fotografia tetra, oscurante, polverosa, crudele e sanguigna.

Il tutto realizzato con luce naturale, dove i raggi di sole filtrano tra le fronde della foresta e i superstiti vivono così tra fanghi, piogge vistose e umidità penetrante. Ambiente che riesce a interagire con lo spettatore, adattandosi perfettamente al racconto eroico e tragico. Altro fattore aggiuntivo non indifferente dell’intera pellicola è la colonna sonora di Andrea Farri, di grande effetto.

Le riprese del film, interamente girate nel Lazio, si erano già concluse alla fine del 2017, ma per un’opera del genere, ambientata addirittura nel 753 a.C., era necessaria una lavorazione post-produzione alquanto impegnativa, che ha occupato circa quattordici mesi.

Un cast di forte impatto, disposto a tutto, che si mette in gioco in una danza vorticante, affrontando una sfida non solo artistica ma anche e soprattutto umana. Scelta eccellente per i due protagonisti: Borghi e Lapice si sono esercitati per mesi nel combattimento corpo a corpo con lance, spade, asce e a mani nude.

Ma la mia attenzione si pone, in particolare, sull’interpretazione superba di Alessandro Borghi, attore ormai ben riconosciuto e apprezzato dal cinema italiano che, in queste vesti leggendarie, riesce ad esserci con coraggio e forza, mascherando l’immensa bravura sotto il fango e la recitazione.
Così bravo ad incarnare il personaggio di Remo che se dopo la visione del film pensassimo all’antica leggenda non vi è altro volto che torna in mente se non il suo.

A mio parere è un’opera pienamente riuscita. Oggigiorno leggo spesso lamentele di come il cinema italiano sia sempre più in decadenza, di come riesca a portare sul grande schermo solo commedie da quattro soldi e trame futili: questa pellicola è la dimostrazione che il cinema italiano gode di un certo spessore, che non deve essere sottovalutato e che ha effettivamente un grande potenziale che sta imparando a sfruttare. Il cinema di valore esiste, deve solo essere scoperto e apprezzato di più.

“…dal loro sangue nascerà una città, Roma, il più grande impero che la Storia ricordi. Un legame fortissimo, destinato a diventare leggenda.

Marica Di Giovanni

 

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