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“Voi capite che Annibale Carracci si era stancato di dipingere solo santi e madonne; voleva anche mostrare il popolo coi suoi mestieri, o la gente come me che (…) col cappello in testa mangia un piatto di fagioli in osteria”, direbbe “Il mangiafagioli” secondo Alessandro Castellari, insegnante di italiano e storia alle superiori e collaboratore assiduo con l’Università di Bologna, come riportato nel suo libro “In ascolto di voci mute”, una raccolta di racconti d’arte pubblicata nel 2019.

L’opera, un vero e proprio gioiello della pittura di genere, considerata la più importante dell’ambito dipinta dall’artista bolognese Annibale Carracci, è stata composta tra il 1584 e il 1585, ma una data ricorrente quando si parla di tale opera non è tanto quella relativa alla sua composizione, quanto l’anno in cui il cardinale Lazzaro Pallavicini poté vantarla nella sua collezione, cioè il 1679. Pare che, poi, il quadro sia passato ai principi Colonna, e infatti è tuttora custodito nella galleria di Palazzo Colonna a Roma.

“Il mangiafagioli” è un popolano fra tanti, nonostante indossi un gilet e il cappello in testa. Ad attenderlo, sulla tavola apparecchiata sotto di lui, ci sono diverse prelibatezze, tra cui cipolle, funghi, pane e una caraffa di vino bianco: si tratta, per l’appunto, di un quadro di genere, cioè di un dipinto raffigurante una scena di vita quotidiana, che racchiude i costumi e le tradizioni del popolo. Occupandosi di raffigurare questo tipo di scena, Carracci dimostra di voler rappresentare una realtà verace, senza fronzoli né abbellimenti, ma colta in tutta la sua naturale genuinità.

Significativo, in modo particolare, è il fatto che l’artista voglia porre l’osservatore esattamente all’interno della scena, proprio di fronte al personaggio rappresentato, come se volesse farlo sedere a tavola con lui, per condividere ciò che il mangiatore di fagioli sta assaporando. Come chi sta per dire qualcosa, per interagire con un ipotetico interlocutore che gli sta di fronte, infatti, l’uomo rappresentato dal Carracci appare sospeso, con il cucchiaio a mezz’aria, il brodo che gocciola da esso e la bocca aperta, in attesa di buttar giù un bel boccone.

Annibale Carracci (Bologna, 3 novembre 1560 – Roma, 15 luglio 1609), noto pittore italiano, fu tra gli iniziatori dell’Accademia degli Incamminati, insieme al fratello Agostino e al cugino Ludovico: si trattava di una sorta di bottega privata in cui si promuoveva l’imitazione fedele della realtà, discostandosi fortemente dalla scuola manierista.

Carracci subì, tra gli altri, gli influssi del maestro Bartolomeo Passarotti, bolognese come lui, e del Correggio, suo grande e importante punto di riferimento.

L’opera in questione, per la quale Annibale trasse insegnamenti dai suoi predecessori, mostra, quindi, uno spaccato di vita quotidiana, in cui la scena sembra parlare da sé: non è necessario aggiungere nulla, i colori utilizzati dall’artista sembrano essere sfumature di una stessa tonalità, come a voler raffigurare un’esistenza persino povera di colore, ma arricchita dai prelibati cibi presenti sulla tavola imbandita, e ciò emerge prepotentemente da uno sfondo scurissimo, su cui la tinta uniforme di cappello, vesti, tovaglia e caraffa, nella sua estrema semplicità, risulta perfettamente in linea con l’intento rappresentativo dell’artista, volto a non aggiungere nulla che non fosse emblema della realtà.

Chiara Pirani

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