«Per quel coso anche un branco di bastardi è riuscito a conquistarsi un pizzico di gloria.»
Questa è la frase che, nella parte finale del film, accompagna uno dei passaggi cruciali di Quel maledetto treno blindato, pellicola del 1978 diretta da Enzo G. Castellari.
Una constatazione che racchiude anche il senso dell’intera storia, la quale segue le vicende di un gruppo eterogeneo di adorabili canaglie appartenenti all’esercito americano che, sul finire della seconda guerra mondiale, viene condannato alla fucilazione per essersi sottratto agli ordini impartiti dai superiori. Mentre i soldati vengono trasportati verso un inesorabile e tragico destino, il convoglio nel quale viaggiano subisce un attacco aereo da parte dell’aviazione tedesca. Questo evento concede loro una possibilità di ribellione attraverso cui riappropriarsi della libertà negata.
Un incipit esplosivo che traccia le coordinate narrative e stilistiche su cui si muoverà l’intero film. Una briosa, energica e goliardica fuga verso la libertà, in compagnia di personaggi archetipici, non particolarmente approfonditi, ma sufficientemente definiti nei rispettivi ruoli. Piccoli frammenti all’interno di un ampio racconto corale, nei quali ciascuno di essi riesce a trovare il proprio spazio e a delineare il proprio arco verso una possibile redenzione.
Caratteri adeguati, se non addirittura necessari, in una tipologia di prodotto volto all’intrattenimento più onesto, semplice e proprio per questo anche appagante.
Quel maledetto treno blindato è un sontuoso viaggio picaresco, figlio di un cinema popolare in grado di accostare un linguaggio essenziale ad una ricerca visiva sconosciuta nella recente cinematografia italiana. L’attuale deriva del cinema popolare verso il territorio incolore di una commedia che si mantiene forzatamente ancorata al reale ha portato all’estinzione di queste opere, le quali ambivano a guadagnarsi l’attenzione degli spettatori attraverso un uso organico delle tecniche cinematografiche. Sorretti da un’ambizione oggi sconosciuta nella costruzione di una messa in scena mirata alla spettacolarità, anteponendo genuinamente il piacere del pubblico alla propria ideologia, autori come Castellari sapevano partorire pellicole fortemente riconoscibili, all’interno di un panorama diversificato, che individuava la propria essenza nella specificità dei “generi”.
Tra i manifesti di questo meccanismo produttivo, al quale oggi guardiamo con un certo rimpianto ma che suscitò parecchi malumori nella critica dell’epoca, Quel maledetto treno blindato si presenta a noi in tutta la sua carica dissacrante, ironica ma pervasa anche da un gusto estetico estremamente raffinato nella sua torbida aggressività.
Nonostante il tono leggero che riveste piacevolmente ogni passaggio, la ricostruzione del contesto bellico, brutale e feroce, rimane intatta nella propria carica efferata, la quale concede un sapore amaro all’intera vicenda, giustificandone anche il tragico epilogo.
Un’opera quindi che, nella sua modestia, ha saputo dimostrarsi anche sorprendentemente incisiva, tanto da resistere alle scalfitture provocate dal passaggio del tempo, e palesarsi ancora oggi in tutta la sua modernità. Non a caso un maestro nostalgico come Quentin Tarantino ha omaggiato quest’opera nel titolo di uno dei suoi massimi capolavori, Inglourous Basterds (storpiatura di Inglorius Bastards, con il quale il film di Castellari venne diffuso all’estero). Una citazione aggiuntasi alle varie forze già operanti, che hanno contribuito alla necessaria rivalutazione di un autore, e per esteso di un intero filone, ingiustamente relegato ai margini della storia del nostro cinema. Una zona d’ombra ricca di forze in fermento, alle quali oggi si riconosce un ruolo fondamentale per la vitalità di un sistema produttivo di cui avremmo ancora un disperato bisogno.
Andrea Pedrazzi