The Rocky Horror Picture Show è uno dei 50 cult movie, ripreso dal teatro di Richard O’Brien e reso pellicola da Jim Sharman. Un musical che inscena l’eccesso, la provocazione e l’intima soddisfazione che ne deriva.

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È la voce fuori campo del criminologo che ci guida in flashback verso “uno strano viaggio”, partendo assieme ai due innamorati e promessi sposi: Brad e Janet , due giovani “sani e normali”, rappresentanti del sistema valoriale della società degli anni ‘70 e governati da un senso morale che sarà banalizzato fino al ridicolo. I due, in una notte di tempesta e costretti alla ricerca d’aiuto, si ritroveranno di fronte al Castello, sul cui cancello è appeso un cartello: “A VOSTRO RISCHIO!!”, che avvisa i due e già strizza l’occhio allo spettatore.

All’interno del castello, a discendere da un ascensore, metafora dell’angelo caduto a farsi diavolo, appare Frank-N-Furter (Tim Curry), un travestito dall’aliena provenienza dal pianeta Transexual, “un demone d’amatore”. Frank è il fulcro tensivo, catalizzatore e motore di tutto ciò che si sviluppa all’interno del suo castello, in cui regna l’imperativo del suo volere. L’intorno è quindi inscindibile dalla sua personalità, ne diventa un’estensione, un prolungamento, contaminante dell’atmosfera fisico-emotiva e di quanto accade. Si celebra quella notte la nascita di Rocky, creatura da laboratorio di Frank, con una chiara assonanza col Frankenstein di M. Shelley. Rocky è l’incarnazione del piacere, la collisione del desiderio spudorato e del volere più pulsionale del suo creatore, che gli dona la vita al solo fine di “alleviare la sua tensione”. La funzione del muscle-man è quella di non fare sperimentare alcun tipo di frustrazione al protagonista. In poche parole, Rocky è una soluzione, serve per ‘‘non aspettare’’, per “non dover tollerare”. Nell’ottica dei meccanismi psicologici, egli rappresenterà l’idealizzazione di Frank, e, al momento della non rispondenza con le sue aspettative, il traditore più becero, bersaglio della sua ira e di tutta la sua capacità di svalutazione, in un aut-aut perturbante.

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Tutto il film è dominato dall’asservimento più totale a quello che Freud ha chiamato principio di piacere: quasi non esiste psichismo nel film, tutto è acting e azione al fine di procurarsi una dose lisergica di piacere che porta in un’altra “dimensione”. La dimensione, simbolicamente, è quella dell’Es. L’Es, per lo psicoanalista, è quell’istanza psichica sede dei bisogni pulsionali che vengono dal corpo, insieme caotico e turbolento delle pulsioni, che muove il soggetto nella loro realizzazione. La scenografia dipinge molto bene un’atmosfera, una dimensione, appunto, dove regna indiscutibile quel principio mosso dalla pulsione ingovernabile. Così, lo stesso Frank, in una delle scene finali, dirà la frase cardine che diventa il fil rouge di tutto il musical: “non c’è reato quando provi piacere”.

In una versione estrema del soggiogamento a tale tipo di pulsione, si dipana una condizione umana e possibile, ma certamente molto fragile, che accarezza un profondo disagio esistenziale. È la conditio di un Io che non ha confini, che si espande oltre il sé, e il tutto al di fuori di esso ne è parte costitutiva, in maniera indifferenziata. Il castello si fa involucro fisico di un debordamento dell’Io di Frank, e questo ci rimanda alla possibile interpretazione dei due servi, Riff Raff e Magenta, come parti ausiliarie del Castellano, dei supporti anaclitici, ovvero volti a “tenere insieme” il soggetto finché ne sono al servizio, ma che lo fanno cadere in una profonda angoscia quando si ritraggono da tale funzione, come si evidenzia dalla scena in cui Frank galleggia nell’acqua della piscina, mentre cola il trucco e con esso si disfa tutta la sua nitida immagine: è lo sfaldamento interiore, la perdita di compattezza dell’Io.

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Il film dipinge, dunque, un’organizzazione di personalità che funziona sulla base del bisogno, e, in quanto tale, non sa desiderare, perché non sa aspettare. È il “tutto e subito” dell’Es, è l’urgenza di soddisfare la pulsione che pervade il corpo. Siamo di fronte al soggetto che appare certo solo nella sua indefinizione, compresa quella sessuale. Ad esempio, anche i connotati maschili e femminili non sembrano che avere la funzione di poter variare la meta sessuale in modo indiscriminato. Lo mostra bene la scena in cui Frank è uomo, nell’atto sessuale con Janet e, specularmente, donna, in quello che si consuma con Brad. Ma, più a fondo: dietro questa ricerca del piacere “senza fine” vi è la necessità di trovare emozioni forti, che, ancora, servono per ottemperare ad una difficoltà a percepirsi. L’atto del riempirsi di tali emozioni, portando tutto all’eccesso, diventa il modo di tappare la noia che scaturisce dal vuoto, un vuoto in cui manca la presenza di un oggetto confortante, in grado di consolare il momento di solitudine, vissuto con un intenso sconforto abbandonico.

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Il film, uscito negli anni ‘70, fece immenso scalpore nonostante i primi effetti del post ‘68. Con la società odierna, invece, ci si possono trovare diverse assonanze, sicuramente frutto, anch’esse, del nostro tempo. Il Dr. Scott, di fronte allo show cui assiste all’interno del castello, proferisce, in una delle ultime scene, un consiglio, e, forse, una profezia: ‘’dobbiamo uscire da questa trappola, prima che la decadenza ci tolga ogni volontà’’.

Valentina Moscatiello

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