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Scrivere un prodotto televisivo di qualità è parecchio difficile: è difficile ottenere i giusti finanziamenti, è difficile gestire gli attori, è difficile rispettare i tempi di distribuzione, e di rado capita agli sceneggiatori di avere in mente già durante la produzione del pilota come la storia che s’intende raccontare sia da strutturare e suddividere nel corso delle stagioni. Se a questo s’aggiunge che a pochi (s)fortunati capita di vincere la lotteria diventando fenomeno mondiale, che a poco serve se non a mettere pressione su tutto il progetto, allora si può avere una vaga idea di quali siano le sfide che attendono gli scrittori del piccolo schermo.

Durante stagione 6 e stagione 7, Game of Thrones ha vissuto in un limbo: una sospensione del giudizio nell’attesa che tutti i tasselli venissero posizionati nel corretto verso prima del confronto finale. Un’attesa, che al di là di alcune spettacolari puntate (“Hardhome” e “Battle of the Bastards”), aveva più volte fatto dubitare della competenza degli sceneggiatori e fatto chiedere dove fosse finito il “Game” di Game of Thrones, fra dialoghi sterili, deus ex machina da film di serie Z e personaggi che abbandonavano le loro personalità sfaccettate per diventare l’ombra di sé stessi, talvolta al limite della stupidità, come nel caso di Tyrion. Se questo calo sia derivato da una perdita di stimoli, un cambio di strategia, di ritmo o divergenze creative interne mal sopite non è dato saperlo, almeno per un altro po’ di tempo.

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Stagione 8 è ripartita – e si è conclusa – accompagnata dagli stessi difetti, ingigantiti dalle alte aspettative che, a ragione, gli spettatori si erano fatti nei due anni di pausa. Aspettative di una storia coerente, di momenti che potessero ricordare quei colpi di teatro che avevano fatto innamorare anche i più reticenti verso il genere fantasy. Scene che non spiazzavano solamente per il gusto di spiazzare, ma che venivano da sé, naturalmente frutto di un mondo barbaro la cui logica ci sfuggiva ancora. Robb Stark, ad esempio, muore perché antepone l’amore alle logiche politiche; muore (e questo vale la pena ricordarlo, se si pensa a come si teletrasportino i personaggi da stagione 6 in avanti) perché ha bisogno dell’aiuto di un oscuro lord per attraversare un ponte.

L’ingenuità, l’inesperienza alla politica del gioco dei troni, la sfrontatezza del suo avversario, ne hanno determinato la fine. Chi sbaglia paga con la vita, come già Ned aveva capito prima di essere giustiziato.

Con il passare degli episodi, lo spettatore aveva cominciato a capire le regole di George Martin: sono i personaggi come Ditocorto, Varys, Cersei o Tyrion i veri protagonisti, mentre tutti gli altri, quelli incatenati alla propria morale, non rimangono che pedine, Jon Snow incluso. A vedere la piega che prendono gli archi narrativi di questi ultimi si capisce come gli sceneggiatori, una volta superati i romanzi e lasciati soli con qualche linea guida, non abbiano mai capito troppo dell’universo che li ha resi milionari. Complice la loro voglia di dedicarsi ad altri progetti e i crescenti costi degli attori (1 milione di dollari a puntata a Lena Headey solamente per farle bere vino), la chiusura della storia è parsa giocata solo su momenti d’azione estremamente raffazzonati e, a tratti, puerili.

Il povero Re della Notte ne avrebbe tante da dire. La personificazione della morte la cui presenza aleggia sin dalla prima scena del primo episodio della serie, il personaggio che doveva rappresentare la futilità delle lotte per il potere, la metafora dei nuovi problemi globali (cough… cambiamenti climatici cough…) che il nostro mondo deve affrontare mentre rimaniamo a perderci in chiacchiere superflue, ucciso con il deus ex machina più anticlimatico della storia della televisione. E così, riguardando la storia a posteriori, pare quasi di aver perso del gran tempo a preoccuparsi di un nemico così sterile e bidimensionale. Così come tutto l’esercito di non morti che ha cercato di prendersi Winterfell, incapace, pur con una superiorità di 10 a 1, non solo di schiacciare gli avversari (omissis volontario sulle strategie militari), ma neppure di avere la meglio su uno sfiancato e supino Samwell Tarly. Neppure il drago di ghiaccio si è dimostrato poi così pericoloso a ben vedere: ottimo per abbattere le mura della città, meno per distruggere la roccia che proteggeva l’eroe Jon Snow o per colpire indiscriminatamente chiunque gli si parasse davanti. Tanto poi il Re della Notte non li può resuscitare tutti?

O, per spostarci nel tempo, i poveri draghi di Daenerys, la cui potenza cambia a convenienza della trama: ora preda facile di Euron (che mira!), ora implacabili distruttori di tutto ciò che gli si pari davanti. Euron, poi, meriterebbe un capitolo a sé nell’enciclopedia dei personaggi monodimensionali della storia della televisione: cattivo senza motivazioni, senza personalità, senza un arco definibile (se si esclude la sua voglia di fornicare con Cersei), che si oppone a Jamie, altro personaggio buttato alle ortiche nel modo più insensato possibile: 7 stagioni di redenzione dai suoi peccati, cinque minuti per farlo tornare al punto di partenza, dalla sua amata sagoma di cartone che ha smesso di parlare e ora beve vino guardando i panorami della sua città dalla torre.

HBO's Official 2018 Emmy After Party - Inside

David Benioff e Daniel Weiss in questi giorni stanno ricevendo critiche assai negative e attacchi personali che solo gli spettatori più feriti possono giustificare. In fondo stiamo pur sempre parlando di un adattamento televisivo di un’opera di cui non hanno ideato le fondamenta, che forse avrebbe richiesto qualche stagione in più, e di cui non potevano tirare le fila autonomamente senza creare vuoti di trama o senza perdere un po’ di coerenza con lo spirito della storia. Certo, rimangono scelte ruffiane imputabili solamente a loro, colpevoli di aver sottostimato il proprio pubblico considerandolo alla pari di quello dell’intrattenimento spicciolo, invece che un corpo di spettatori esigenti e orfani di un realismo televisivo morto con la morte di House of Cards et similia. A conti fatti, Game of Thrones rimane un prodotto televisivo che, a cervello spento, risulta apprezzabile, grazie al grande lavoro degli attori e a quello di scenografi, registi, costumisti e post-produttori che hanno contribuito a realizzare scene spettacolari a dir poco, specie nel corso dell’ultima stagione. E forse gli sceneggiatori ci hanno davvero stupito di nuovo, un’ultima volta, con la morte di un personaggio inaspettato la cui agonia abbiamo provato tanto ad ignorare: la serie stessa.

Davide Arcidiacono

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