
Tra i cocenti ed aridi paesaggi dello spaghetti western, in cui la dilatazione degli spazi e delle temporalità rappresenta il terreno di scontro fra eroi inscalfibili e sguaiati furfanti; tra la spettacolarizzazione della violenza e la sua conseguente neutralizzazione attraverso uno sguardo enfatico esasperante, quando non addirittura comico, il cinema di Sergio Corbucci si erge come un solido crocevia tra la leggerezza della finzione e la brutalità del mondo reale. Un cinema che, abbeverandosi all’oasi della filmografia di genere, alimenta le trame e i personaggi con elementi mutuati dal glorioso passato, per poi declinarsi secondo il marchio rozzo e aspro che contraddistingue lo stile del suo autore.
Ad esemplificazione di questa dissonanza mascherata da affinità strutturali, Il Grande silenzio (1968) può essere considerato un film emblematico rispetto al linguaggio di Corbucci. Una devianza esplicitata già nelle primissime inquadrature, in cui le ambientazioni canoniche citate in apertura vengono immediatamente sostituite dal gelido abbraccio di un’impervia natura innevata (come locations, le dolomiti venete sostituirono le lande desertiche della Spagna meridionale). Uno scenario affascinante quanto letale, ingannevole ed intriso di una violenza che si impone come massima autorità, in un cotesto in cui la legge vacilla e crolla sotto le pesanti sferzate dell’ingiustizia.
In questo mondo di vane aspirazioni e insopportabili miserie, nel quale anche i banditi vengono considerati come delle vittime degne di compassione, il male assoluto viene incarnato da coloro che sulla disperazione poggiano le basi del profitto. Il cacciatore di taglie Tigrero, impersonato da un imperscrutabile e quanto mai viscido Klaus Kinski, racchiude in sé i tratti della tirannia che, agendo ai limiti della legalità o addirittura sostituendosi ad essa, procede secondo una logica priva di ideali e avulsa da qualsivoglia moralità; un atteggiamento che rimanda al cinismo individualista, sorretto dalla logica del triviale arricchimento personale.

In contrapposizione all’arroganza del singolo, si schiera l’eroe mite e carismatico di Corbucci, il quale, come il Django di Franco Nero (Django 1966) o l’Hud di Johnny Hallyday (Gli specialisti 1969), racchiude in sé la freddezza del giustiziere addolcita da una vulnerabilità derivante dal dramma passato. Una tragedia che costituisce il terreno fondante dell’etica del personaggio e che, in questo caso, si riflette anche in una menomazione fisica che toglie la parola al protagonista di Jean-Louis Trintignant, accrescendone però l’alone leggendario: “si chiama Silenzio, perché dopo che è passato resta soltanto il silenzio e la morte”.
Due personalità agli antipodi, archetipi che racchiudono al loro interno dei valori contrastanti: da un lato una sensibilità che ripugna il sopruso e si pone come alleata dei deboli e dall’altro l’atteggiamento subdolo di chi sfrutta le difficoltà altrui per tornaconto personale. Uno scontro dall’esito apparentemente scontato secondo le regole del genere, che invece Corbucci sovverte in un finale dal tono amarissimo nel quale riversa tutto il proprio scetticismo nei confronti di una possibile equità sociale. Laddove regnano il caos e la malvagità non può esserci spazio nemmeno per la speranza; lo stile torbido ed aggressivo del regista si fa portatore di questo messaggio devastante, il quale accentua la tinta crepuscolare che pervade questo western all’italiana. Il Grande silenzio si pone, in questo modo, come una potente eccezione al paradigma leoniano, deformandone l’epica in un’opera la cui durezza è paragonabile solo al fascino che trasuda da ogni inquadratura.
Andrea Pedrazzi