Francia, 1996: un gruppo di ballerini si riunisce nella palestra di una scuola abbandonata per fare le prove di uno spettacolo di danza, che presto si trasforma in una dance macabre di sesso, violenza e isteria collettiva, nel momento in cui si diffonde la paura che qualcuno, all’insaputa di tutti, abbia corretto la sangria con dell’LSD. Non è chiaro se questo turbinìo di eventi sia un fatto di cronaca accaduto realmente o se il regista Gaspar Noé abbia voluto usare questo espediente narrativo per dare forma a una parabola sull’esistenza “come un’illusione fugace che ognuno di noi si porta nella tomba”.

Tant’é che, seppur ambientato negli anni ‘90, si tratta di un avvenimento sintomatico della nostra epoca individualista, paranoica e divisiva. La storia si svolge con una lineare semplicità, che corrisponde all’insolita scelta di organizzare le riprese secondo l’ordine cronologico degli eventi. Nonostante questa linearità, è tuttavia arduo ascrivere il film a un genere preciso.

Ispirato dalla visione di una sfida di vogue (una cosiddetta ballroom), in fase embrionale Noé aveva previsto di fare un documentario su un gruppo di ballerini, poi diventato un breve soggetto di sole 5 pagine e privo di sceneggiatura. Ai performer è stata data totale libertà di improvvisazione nella costruzione del proprio personaggio. Di tutto il cast solo Sofia Boutella e Souheila Yacoub avevano esperienza attoriale. Il culmine di questo esperimento performativo è il bad trip improvvisato da Sofia Boutella, che si dimena in preda al delirio psicotico come Isabelle Adjani in Possession. Proprio la figura che dovrebbe mantenere l’ordine e la coesione del gruppo in qualità di coreografa cade in uno stato psicotico da cui lo spettatore non può distogliere lo sguardo. La macchina da presa pedina i personaggi con lunghi piano sequenza (uno dei quali dura più di 40 minuti), ormai marca stilistica di Noé ereditata dal film Angst e che ci riporta all’ipercinetico e nauseante incipit di Irréversible. L’atmosfera demoniaca è ulteriormente amplificata dalla fotografia satura e sporca di Benoît Debie. Non sembrano esserci che luci al neon in questa Babele: laggiù i colori sembrano ridursi al minimalismo della triade additiva del modello RGB (Rosso-Verde-Blu).

Ne risulta un misto tra l’horror, in cui a far paura è l’effetto della paura stessa, e il musical, in cui è centrale la fisicità in rapporto alla musica. Eppure nessuna delle due categorie di genere sembra poter descrivere questo Inferno in Terra. Neanche definirlo un film psichedelico sembra esaustivo: l’elemento della droga non è sufficiente a inserirlo nel filone, perché Noé non ricrea un’esperienza di visione lisergica come nel precedente Enter the Void o come fa invece Roger Corman nel film cult The Trip. Dall’alto del plongée, in Climax lo spettatore è condannato a essere testimone inerme di un incubo che si svolge nella mente dei personaggi, ma non può farne parte.

Eppure, nonostante questo senso dell’inclassificabile, un legame con il musical è presente: l’ambientazione e le scene di ballo riprendono il backstage musical di Busby Berkeley, che ha portato il genere al successo negli anni ‘30, prima con la Warner Bros. e poi con la MGM. Anche Climax si basa sul meccanismo consolidato del raccontare ciò che capita dietro le quinte di uno spettacolo performativo.

Autodefinitosi dance director piuttosto che coreografo, Berkeley fa sfoggio dei tecnicismi ereditati dall’esperienza nell’allestimento delle marce militari: nei suoi bizzarri numeri musicali dal gusto camp prevale la geometria dell’insieme sul movimento del singolo.
Le ballerine sono tutte copie di una matrice da cui deriva la stessa sequenza di movimenti, lo stesso costume e  lo stesso sorriso arcaico da korai greche. Non sono intese come personaggi, ma come elementi geometrici che vanno a formare cangianti raffigurazioni dalle composizioni e dai punti di vista complessi.
Esemplare è la surreale scena finale di The Gang’s All Here, uscita dal 1943, di una dimensione temporale alternativa: le immagini in Technicolor sembrano generarsi da sé come i giochi cromatici di un caleidoscopio, scomponendosi e ricomponendosi in un gioco di specchi.

I backstage musical di Berkeley hanno trovato infatti maggior successo proprio nei periodi della storia americana in cui l’ottimismo patriottico si è rivelato una risorsa necessaria: gli anni della Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale. La coordinazione coreografica alla base dei suoi numeri musicali trova il proprio corrispettivo nella visione politica collettivista di Roosvelt e nell’ideale di coesione sociale sotto la bandiera della patria americana. Lo sforzo di ogni cittadino è necessario per uscire vincitori dalla crisi  economica o dalla guerra. La cooperazione tra gli individui è un sacrificio per il bene collettivo, cioè il sogno americano, obiettivo a cui si giunge con un percorso storico lineare. Allo stesso modo, la prestazione individuale delle ballerine va quasi ad annullarsi in favore di una disciplinata coralità attentamente pianificata in cui l’ordine deve trionfare sul caos, inquadrato in oggettive irreali dall’alto.

Alla militare geometria di Berkeley si oppone la composizione organica della coreografa di Climax, Nina Mc Neely, già collaboratrice per i videoclip musicali di Björk, Rihanna e Pharrell Williams. Sebbene il punto di vista onnisciente sia un elemento in comune con i musical di Berkeley, in Climax non c’è una vera e propria coordinazione tra i ballerini. All’apparenza sembrano muoversi all’unisono come un unico blocco, ma i movimenti individuali sono ben definiti e differenziati, collocabili in vari stili di danza. I passi di ballo sono stati improvvisati nel corso delle prove secondo un work in progress collettivo, dando vita man mano a un organismo danzante opposto al meccanico e calcolato modus operandi di Berkeley.

Il piano sequenza a inizio film, in cui il regista ha straordinariamente fatto anche l’operatore di macchina, è un melting pot in cui ogni ballerino è portatore di una sottocultura musicale: stili diversi come vogueing, wacking, krumping ed electro dance sono esibiti in un’unica virtuosistica coreografia sotto il brano Supernature di Cerrone, remixato dal DJ Kiddy Smile che interpreta l’alter ego di sé stesso. Ma, come emerge dai dialoghi improvvisati, è anche un mescolamento di etnie, sessualità, religioni e filosofie di pensiero che emergono in tutta la loro incompatibilità mentre sale l’effetto lisergico della droga.

Noè dispiega l’anti-musical ribaltando le consuetudini del genere: l’ingenuo ottimismo dei musical del cinema classico  viene schiacciato dalla perdita di controllo di fronte al contagioso sentimento della paura che porta alla frammentazione del gruppo. In questa società polarizzata basta l’influsso di una sostanza stupefacente per liberare dalle catene morali i propri distruttivi demoni interiori.
Noé non lascia via di scampo, tant’é che la fine viene rivelata con crudezza già nella primissima inquadratura di Lou che si trascina sanguinante nella neve mentre scorrono i titoli di coda. In questa delirante affermazione del caos neanche i basilari codici cinematografici vengono rispettati: i titoli di testa appaiono solo a metà film, perché è proprio questo il momento in cui la parabola si fa discendente.

Se il musical ha la funzione di dar vita a un mito moderno, Noé il mito del multiculturalismo lo distrugge, perché ogni giorno sotto i nostri occhi appare sempre più fragile, attaccato da chi semina il panico con la manipolazione delle informazioni e da un darwinismo che prevede che siano solo i più forti a poter sopravvivere. Non è un caso infatti che i primi a morire siano i soggetti più deboli della società, sacrificati come capri espiatori o linciati paradossalmente proprio da membri di altre minoranze: il musulmano Omar, la donna incinta Lou, il piccolo Tito e la  tossicodipennte Jennifer.

Oltre a liberare i più bestiali istinti di violenza, l’acido rivela anche la maschera indossata dal viscido e spavaldo David, ora emotivamente fragile. E rivela anche come l’atteggiamento iperprotettivo del fratello maggiore di Gazelle celi una gelosia incestuosa, parente della stessa mascolinità tossica dei krumper che inneggiano allo stupro come dimostrazione della propria virilità. Anche i più basilari elementi di coesione sociale vengono subito attaccati; l’illusione di avere una bandiera o un Dio in comune viene smentita da un senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni che striscia silenzioso fino a esplodere nella reciproca distruzione mentre la musica di Thomas Bangalter, Giorgio Moroder e Aphex Twin continua incessantemente a pompare nelle casse.

Giulia Silano

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