
In distribuzione in alcune sale cinematografiche italiane dal 25 luglio, Midsommar è il film diretto da Ari Aster, regista già noto dalla precedente produzione del 2018 Hereditary.
A differenza di quest’ultima, in cui è dominante il cupo all’interno dell’ambiente per tutto il film, in Midsommar quello che ci stupisce è la luce.
La protagonista, Dani Ardor (Florence Pugh), dopo aver perso da poco la sua famiglia in una notte d’inverno, si unisce alla compagnia di amici del suo fidanzato Christian (Jack Reynor) in un viaggio in Svezia nella Comune di Hårga, luogo di origine di uno di loro. Appena arrivati, gli esterni alla popolazione locale vengono invitati a partecipare ai rituali di mezza estate, un insieme di riti pagani, che saranno eventi centrali dell’intera vicenda. La protagonista è l’unica del suo gruppo di amici a non essere un’antropologa. La visione di Dani è diversa da quella degli altri perché influenzata maggiormente dalla sua recente perdita.
Si potrebbe descrivere come una figura infantile, bambinesca, alla ricerca di una famiglia in cui potersi inserire. Questo desiderio torna con forza durante la visione anche per frutto di una rappresentazione visiva in cui i costumi, più grandi e morbidi, la fanno sembrare piccola e impacciata nei movimenti, in particolare nelle scene finali.
Appena arrivati nella Comune, attraverso movimenti di camera disorientanti che caratterizzano una regia onnisciente, veniamo catapultati in uno spazio per noi completamente sconosciuto, fatto di colori pastello, ma soprattutto di un bianco quasi accecante. Ci viene presentata una cultura autonoma, a sé stante, che permette ai componenti di conoscere l’esterno per una certa fase della loro vita ma che poi ne prevede il rientro. Una cultura invasa da una religione forte che, attraverso i suoi fedeli, vede a man a mano creare quella che sarà la circostanza finale, ben introdotta anche da riferimenti visivi durante il film.

Il regista, che firma la sceneggiatura e il soggetto di questo film, non perde tempo nel volerci raccontare la storia dei personaggi principali, quello che ci viene fornito è sufficiente per descrivere il racconto.
In effetti, si potrebbe leggere il tutto con semplicità: persone esterne ad una determinata cultura vi entrano per un limitato periodo di tempo e ne provano le usanze.
Lo sguardo dell’antropologo, quale dovrebbe essere quello dei ragazzi che accompagnano la protagonista, è in generale distaccato, rispettoso e pronto allo stesso tempo nel lasciarsi coinvolgere nelle tradizioni per poterle poi raccontare. Vengono presentate invece delle persone talvolta giudicanti, talvolta invece troppo inglobate in questa cultura, che è quasi pronta a mangiarli per poter sopravvivere pura e intatta.
Quello che Ari Aster allora fa è un lavoro sulla cultura e sul rispetto di questa, utilizzando un linguaggio e tante tradizioni reali e inventate che non è intenzionato a spiegare, perché ancora non ce n’è bisogno. Ci viene imposto di non giudicare, di guardare, spesso magari con tensione e in attesa che sorga la paura vera, quella che siamo troppo abituati ad aspettarci quando entriamo in una sala cinematografica per guardare un film etichettato sotto il genere horror.
Midsommar non è un horror, non se lo intendiamo in questo modo. Sfrutta la paura del diverso facendoci letteralmente sorridere, ci fa muovere in un mondo che non è il nostro e a mano a mano tutto quello che accade non ci spinge a lottare, ma quasi ad accettare e a capire che non ci compete.
Siamo dalla parte della protagonista, ma ciò che la circonda non può essere diviso tra “bene” e “male”, tra “giusto” e “sbagliato”, ed è proprio qui che nasce la confusione.
Questo film ha bisogno di una profonda riflessione finale da parte dello spettatore, che deve essere pronto a lasciarsi trasportare senza indugio all’interno di un ritmo scandito dal respiro dei personaggi, che non è solito sentire in un film di questo genere.
Tutta la vicenda si sviluppa con lentezza, mentre lo schermo viene dominato da una bellezza visiva particolare e da effetti che quasi potrebbero far dubitare di non aver ingerito droghe nascoste nel contenitore di popcorn.
Sarah Corsi