
C’è un film con il quale viene, convenzionalmente, fatta coincidere la nascita del fenomeno che poi sarebbe esploso nella gloriosa stagione dell’horror italiano, impostata da Bava e culminata con Argento e Fulci. Un’opera dal rigore classicheggiante e dalle cupe atmosfere che plasmano il proprio fascino attingendo dalla letteratura gotica e dai torbidi scenari dell’horror hollywoodiano. Siamo nel 1957, quando il multiforme Riccardo Freda, autore di svariati blockbusters nostrani in epoca neorealista, approda nelle sale con I vampiri, sua prima incursione nelle sinistre aule di questo genere.
Una produzione imponente che dapprima colpisce per un impeccabile comparto tecnico, il quale vede il coinvolgimento di imponenti scenografie enfatizzate dai forti contrasti della fotografia curata da un giovane Mario Bava, il quale venne anche incaricato di ricoprire il ruolo di regista (non accreditato), terminando le riprese dopo l’abbandono di Freda dovuto a diverse incomprensioni sul set.
Una storia che esordisce come un giallo dai toni forti e dall’indole efferata che nel corso del proprio svolgimento mostra la volontà di trasgredire i limiti imposti dal realismo per ampliare la risonanza dei propri temi ed attribuirvi un impatto più dirompente abbracciando i codici soprannaturali del cinema dell’orrore.
In una Parigi dai lugubri anfratti, accuratamente ricreati in studio, prende vita la vicenda che porterà il giornalista Pierre Lantin (Dario Michaelis), impegnato nell’identificare il colpevole dell’omicidio di alcune ragazze rinvenute nella Senna completamente dissanguate, ad apprendere una macabra verità riguardo la natura della contessa Giselle Du Grand (Gianna Maria Canale). Una trama innestata su uno scheletro ben noto e collaudato da opere precedenti che rintraccia la sua freschezza nel centrato connubio tra il contenuto e la forma espositiva. I vampiri è un apologo riguardante l’ossessione che può essere generata dai rapporti sentimentali, nel momento in cui questi vengono distorti in un malsana smania di possesso. Un racconto che si pone il tutt’altro che facile obiettivo di indagare il lato più oscuro e perverso che compone il sentimento dell’amore. Mostrando le estreme conseguenze che possono scaturire da un amore non ricambiato, Freda porta in scena anche un attualissimo discorso sull’effimero potere dell’apparenza, correlato alla bellezza di superficie, tanto cinica quanto fragile e mistificatoria.

La bellezza apparentemente inscalfibile della contessa Du Grand, ostentata come un baluardo al fine di corrompere l’animo del giovane Lantin, in modo da soddisfare la propria atavica infatuazione, si rivelerà essere un’arma inconsistente. Un tranello in grado di risvegliare solamente gli animi più veniali e facilmente persuadibili, ma altrettanto pronti a voltare le spalle alla realtà, ad essere divorati dalla brutalità dei mostri che si celano nelle profondità dell’animo umano. I “vampiri” sono, perciò, quegli esseri la cui percezione della realtà è irrimediabilmente compromessa dal valore attribuito all’apparenza. In virtù di essa tutto è sacrificabile, anche le vite umane, e, nel disperato tentativo di concedere un libero sfogo alla propria bramosia e di soddisfare il proprio egoismo, l’essere umano perde la capacità di riconoscere la mostruosità insita in sè stesso o addirittura arriva a scegliere di non vederla.
Delineando una storia che coinvolge questi elementi, Freda ingloba un tema che tornerà a fare capolino anche nella sua filmografia futura, ovvero quello dell’utilizzo perverso della scienza per fini triviali e finalizzati all’esaltazione del singolo individuo, nel sempiterno tentativo di varcare i limiti fisici imposti dalla condizione umana. Uno slancio destinato al fallimento, per poi tornare alla realtà e sprofondare nel dolore una volta avuta la definitiva certezza che quei limiti sono invalicabili ed essere devastati dalla disperazione nel comprendere che sotto l’esile velo di menzogna non è rimasto più nulla.
Andrea Pedrazzi