
Descritto come affresco epico e monumentale della storia portoghese del 21esimo secolo, A Herdade del regista portoghese Tiago Guedes si dispiega invece come una lunga (anzi lunghissima, quasi tre ore) analisi ravvicinata dei meccanismi interni a una famiglia borghese, tenendo la riflessione sulla proprietà – e con essa la grande Storia – fuori dalla porta principale.
Un problema di aspettative, forse, quello che riguarda il film di Guedes, che nell’affrontare pur a volte intensamente il meccanismo di relazioni interno a un ristretto gruppo familiare, non fa che separare continuamente lo sviluppo della trama dalle premesse, andando ben presto a far perdere l’attenzione dell’anche meglio intenzionato spettatore.
João Fernandes (interpretato da Albano Jerónimo) è un capo famiglia assente per il figlio Miguel e un marito freddo con la moglie Leonor, preso com’è dal controllo dalla sua estesa proprietà. Seppur inizialmente dipinta come terreno di gioco di certi sviluppi politici, questa viene in seguito quasi completamente dimenticata, ridotta com’è a mero fondale (nemmeno sfondo) di un dramma borghese sempre racchiuso negli spazi della casa. La problematicità di A Herdade non è tanto il voler affrontare la Storia da una prospettiva che paradossalmente da questa si discosta, ponendo l’attenzione al singolo e guardando su questo gli effetti di un contesto: è, piuttosto, il contraddittorio suggerimento iniziale di avere un’intenzione diversa. Perché la Storia c’era, e sembrava volesse parlare: c’era con il tentativo del governo di voler controllare la proprietà dopo il rifiuto di João di un appoggio politico; e c’era anche con l’intrusione dei lavoratori agricoli e del sindacalista, che rivendicavano il loro diritto al lavoro. E se pure João in questi due episodi dimostra di avere posizioni progressiste, queste vengono poi dimenticate e diventano inutili rispetto agli sviluppi successivi della vicenda.

Esclusa dalla trama, la terra viene poi esclusa dall’occhio del regista. Il dramma storico si scioglie allora completamente in un dramma da camera che, servendosi di lunghi piani sequenza a camera fissa e lunghi silenzi tra i personaggi, ricorda più invece una piéce teatrale, contaminata a sua volta da una fotografia sempre e a favore del visibile, che ricorda più volentieri la fiction del piccolo schermo, da cui difatti il regista proviene.
Una commistione di intenzioni, quindi, quella di A Herdade, che nell’accennare continuamente all’importanza della proprietà intesa come casa, dove le generazioni di susseguono e pure si intrecciano (difatti eletta a tematica principale nello sviluppo finale), non fa che spingere a chiedersi per 166 minuti dove sia finito il resto del mondo.
Bianca Ferrari