Subito dopo avere rappresentato in La villa (2018) una borghesia animata da spiriti proletari e sensi di colpa, Robert Guédiguian ritorna in concorso ufficiale al festival di Venezia per guardare l’altra faccia della medaglia, parlando stavolta di una famiglia proletaria che cerca letteralmente ad ogni costo di emanciparsi dalla sua condizione, affrontando però la stessa tematica. Come quella di La villa, in effetti, la famiglia di Gloria Mundi è disastrata in ogni senso, inasprita da debiti, odio interno tra i membri della stessa, tradimenti e cattiverie (qua però animata anche da un briciolo di razzismo, al contrario del buonismo del precedente), e il quadro dove si muovono i personaggi è ancora una volta Marsiglia.

Partendo dall’evento della nascita di Gloria, figlia di Mathilda e Nicolas e nipote di Sylvie (Ariane Ascard), il già precario equilibrio della famiglia viene minato dal ritorno dal carcere di Daniel (Gérard Meylan), ex marito di Sylvie e padre di Mathilda, che, dopo avere scontato 25 anni in prigione per avere difeso un amico durante una rissa finita male, si riaffaccia all’atmosfera casalinga ormai persa. Ancora una volta Guédiguian pone una riflessione sul senso della famiglia come luogo della colpa, in un’idea quasi da tragedia greca in cui questa viene intesa come destino che attraversa le generazioni, e che seguendo lo schema classico si chiude prevedibilmente con l’atto del sacrificio, unico modo per espiarla.

All’interno di una struttura circolare in cui la colpa ritorna al suo autore, la morale sottesa del film sembra quindi assolvere completamente tutti gli altri personaggi, risolvendo i problemi attraverso il capro espiatorio di turno e salvando invece gli altri da tutte le loro antipatiche piccolezze, non facendo allo stesso tempo riflettere questi ultimi sulle loro azioni. È in questo senso che Gloria Mundi sembra fallire il colpo, impedendo, quindi, ai personaggi di arrivare a piena maturazione e risolvendo la vicenda in un sostanziale ritorno alla situazione iniziale che sembra un frettoloso tentativo di chiudere la baracca.

Difatti, l’andamento del film sembra più quello di una fiction televisiva, costruito com’è per situazioni isolate e successive che potenzialmente potrebbero continuare all’infinito, tenute insieme dal debole filo rosso del legame familiare. Come gli eventi funesti sono prevedibili, anche i personaggi sono disegnati meramente in base a una loro unica caratteristica: e così chi è invidioso rimane tale, chi è anti-sindacalista non cambia posizione, chi è meschino non cambia mai modo di fare, e in questo senso la vicenda sembra rifiutarsi di avere fine proprio come in una soap opera. L’avidità di questa famiglia e il suo attaccamento agli oggetti (materializzato nel negozio di usato della sorella di Mathilda) rimangono tali, e il regista non sembra volerli commentare in nessun modo, facendo uso di una regia invisibile che si tiene sempre a debita distanza dai personaggi, i quali si muovono in uno spazio piatto e ristretto che non comunica né isolamento né oppressione, ma ha la consistenza di un fondale di cartone.

Bianca Ferrari

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