
In una assolata e desertica terra di frontiera immaginaria, un magistrato prossimo alla pensione (Mark Rylance) amministra un isolato avamposto, uno degli ultimi baluardi di un impero senza nome. Dall’altra parte della frontiera ci sono “i barbari”, intesi dal protagonista nel senso etimologico del termine di straniero e non di nemico: è proprio la progressista comprensione di questo popolo da parte del magistrato che pone le basi del conflitto con il colonnello Joll (Johhny Depp), il cui arrivo sulla frontiera sovverte i pacifici metodi in torture e oppressione.
Pur richiamando alcuni elementi ricorrenti del western (per esempio con la sequenza iniziale dell’arrivo della carrozza/diligenza, immersa in un paesaggio uniforme quanto sconfinato), Waiting for the Barbarians del regista colombiano Ciro Guerra non usa mai questi elementi in senso narrativo, suggerendo qua e là alcune possibili tematiche e riflessioni, senza però mai svilupparle pienamente, perdendo l’opportunità di attuare un compiuto discorso sul dominio e sul diritto sulla terra che pure un film di frontiera sembra quasi richiedere.
Il conflitto tra i due personaggi principali, infatti, rappresentanti di due mondi distinti, non assume mai una consistenza davvero politica, riducendo l’ispirazione del magistrato a una mera filantropia quasi buonista (limitata alle cure di una barbara mendicante di cui si innamora e per cui compie gesti di conseguenza sconsiderati), e abbozzando soltanto brevemente il personaggio del colonnello Joll, scarno quasi all’osso di battute e condannato a ripetere in eterno le stesse azioni e le stesse frasi a macchinetta, a prescindere dallo sviluppo che la trama sembra invece richiedere.

Nonostante, infatti, il dominio sulla frontiera rivendicato dai rappresentanti imperiali, questi ultimi non vengono tuttavia mai visti in azione per appropriarsene, isolati come sono nello spazio di quattro mura di pietra. E come per gli imperiali, anche per il magistrato questa terra sembra in realtà contare poco, perché nonostante le sue affermazioni e i suoi sprazzi di altruismo nei confronti dei barbari, questi vengono visti soltanto una volta, disprezzandolo pure. La lotta tra i due allora diventa inesistente, e i personaggi sembrano parlarsi addosso senza in realtà essere interessati a quello di cui parlano: Joss come un burattino caricaturale, e il magistrato come un inetto che compie i suoi gesti soltanto per essere coerente nella sua infatuazione, senza mai davvero lottare per i diritti del popolo che vorrebbe difendere.
La parallela e vuota ostinazione dei protagonisti si disperde così all’interno del vasto paesaggio, che fagocitando i personaggi in alcuni campi lunghissimi e nelle insidie della natura (come una tempesta di sabbia) perde l’opportunità di usare questa dispersione come un elemento di rivendicazione. Se da una parte, in effetti, la mai chiara consistenza del paesaggio lo carica di una certa autonomia, che in questo modo suggerisce la sua libertà da qualsiasi dominio, questa autonomia viene tuttavia contestata alla fine, ricordandoci in realtà che esistevano anche i barbari di cui si è tanto parlato, ma dei quali si è avuta un’unica (e inutile) apparizione.
Bianca Ferrari