
Moses si taglia i capelli con una tosatrice per barboncini, ha mollato la scuola anni fa, si mantiene spacciando, vive da sbandato, consumando la droga che vende, scaricando tutta l’energia che ha dentro giocando a basket. Non è interessato a “un mondo ossessionato dalla funzionalità”. Moses ricerca la bellezza e la trova per caso alla stazione ferroviaria. La bellezza di vivere si chiama Millie, va ancora al liceo e si innamora di questo scapestrato con l’avventatezza di chi non ha nulla da perdere. “Quel ragazzo ha dei problemi”, la redarguiscono i genitori Henry e Anna, così apparentemente borghesi e perfetti, “ma anche io”, risponde Millie. E anche questa famiglia, all’apparenza così diversa da Moses, ha molti problemi. Il ragazzaccio irrompe all’improvviso nella loro vita e si dimostra nient’affatto un intruso. Persino quando fa effrazione nella loro casa brandendo una minacciosissima forchetta viene accolto. “Non immagino modo peggiore per fare i genitori”, ammette Anne, eppure in cuor suo riconosce che dando una nuova famiglia al ragazzo, ripudiato da quella biologica, si sta prendendo cura anche di Millie. La figlia è innamorata per la prima volta e questo basta per prendersi il rischio di adottare questo cane randagio dal cuore tenero.
In fondo, hanno in comune la stessa sofferenza e lo stesso palliativo: gli offrono una via legale all’automedicazione per farlo restare, l’ultima occasione per la figlia di provare il primo amore. Non c’è bisogno di cercare nei vicoli della città quando tra le mura domestiche c’è la versione prescrivibile e socialmente accettabile della droga di strada. Già al primo incontro con Moses la madre si presenta strafatta di Xanax e Zoloft (“Spero non sia un ictus!”). Guarda caso c’è già uno spacciatore in famiglia: il padre psichiatra, che cerca di esercitare un controllo farmacologico su una disfunzionalità che via via si fa sempre più evidente.
Questa famiglia allargata accompagna Milla nella sua malattia, mai nominata, ma di cui si mostrano gli effetti fisici. Non importa se Moses si è improvvisato parrucchiere con la sua tosatrice da punk, perché rimedierà all’alopecia totale causata dalle terapie farmacologiche, che alterano Milla anche nell’aspetto – una parrucca biondo naturale da brava ragazza, un biondo platino da sfoggiare a una festa, un caschetto blu dall’aria buffa – man mano che si evolve il rapporto tra i personaggi e cresce la voglia di sperimentare l’adolescenza che scorre via.

Basato sull’opera teatrale di Rita Kalnejas, Babyteeth è il primo lungometraggio della promettente regista australiana Shannon Murphy, eppure non si percepisce alcun legame con i codici teatrali. Secondo la regista, il testo aveva già una naturalezza cinematica che si adatta alla macchina a mano, all’uso della luce diegetica e ad occasionali sprazzi sperimentali da videoclip musicale. Nella colonna sonora, o meglio nella playlist che compone il film, si spazia dalla musica classica di Bach e Mozart (violino e pianoforte sono gli strumenti suonati dai personaggi) alla musica afrofuturista di Sudan Archives e Tune Yards, dal cantautorato contemporaneo di Mallrat a quello anni ’70 di Vashti Bunyan, con l’ulteriore presenza di cover come Baby di Donnie & Joe Emerson (ritornata in questi anni grazie ad Ariel Pink) e Golden Brown riarrangiata dallo Zephyr Quartet.
I dialoghi di Kalnejas, irriverenti ma anche delicati, si accompagnano all’intimità dei primi piani, che accarezzano i giovani e straordinari attori principali Eliza Scanlen (Milla) e Toby Wallace (Moses), caratterizzati da una dolcezza tale che risulta impossibile non entrare in empatia. Eppure nulla del loro passato è esplicitato, neppure la loro condizione presente, che è invece suggerita da occasionali conversazioni, mentre mangiano con la bocca piena, mentre suonano, giocano, ascoltano musica, ballano, si accarezzano, si urlano contro.
Shannon Murphy non indaga l’origine di questo bisogno di automedicazione, la causa della malattia, cosa abbia portato all’incomunicabilità, al tradimento. Non si rivelano in modo manifesto i tormenti individuali dei personaggi, eppure si ha l’impressione di conoscerli già, delineati con toccante vicinanza emotiva.
I dialoghi dal sottile tono umoristico avvicinano lo spettatore, perché come nella vita reale si cerca sempre di distrarsi dal dolore. Questa irriverenza controbilancia perfettamente, senza mai essere inappropriata, le tematiche profondamente drammatiche della storia.
Babyteeth è un perfetto film drammatico con toni da commedia che ricorda come la famiglia, seppur nella sua disfunzionaltà, sia dopotutto il luogo primario nel quale continuiamo a voler ritornare per farci avvolgere dall’amore. Milla ci insegna la gioia di vivere senza rimpianti, la fortuna di accorgersi della bellezza di un paesaggio e di pensare di poter “far parte di un cielo simile” una volta svaniti.
In questa prima gemma di Shannon Murphy è racchiusa una delicatezza commovente, un riconoscimento dei limiti verso il nostro “corpo di troppo”, un atto d’amore verso chi si prende cura di noi, il coraggio di affidarsi a qualcuno quando non si ha nulla da perdere, un saluto postumo a coloro cui non abbiamo potuto dire addio.
Giulia Silano