Francis Bacon (1909-1992) nacque a Dublino da genitori inglesi, si trasferì a soli quattro anni in Inghilterra, rimanendo però legato alla sua terra, dove tornò spesso. Bacon personifica l’immagine dell’artista maledetto, segnato dall’alcol, dalla solitudine, dalla malattia, dal disordine. Cacciato da casa a sedici anni per via della sua omosessualità da un padre iracondo e autoritario, visse a Londra, Berlino e Parigi, dove, dopo aver visto una mostra di Picasso, decise di dipingere.


Ebbe una formazione da autodidatta e fino alla Seconda guerra mondiale dipinse in modo discontinuo; nonostante ciò, è considerato il maggior pittore inglese del Novecento. Bacon è stato un solitario, poco assimilabile ai movimenti artistici del dopoguerra; possiamo però individuare nella sua formazione una forte ascendenza espressionista e surrealista, quest’ultima testimoniata anche dalla frequentazione, a Parigi, del regista Luis Buñuel e dello scrittore Michel Leiris.


Punto di svolta della sua produzione sono i Tre studi per figure alla base di una Crocifissione (1944). Il riferimento all’iconografia sacra del trittico, con i  pannelli laterali simmetrici rispetto al centro, si inasprisce in una serie di figure aberranti, composte da parti umane e da parti animali, tese nello sforzo dell’urlo e del dolore. I tre pannelli sono accomunati da un fondo piatto, con un accenno alla spazialità prospettica attraverso linee scure: ma questa è, a ben vedere, una gabbia che contiene, bloccandola nell’immobilità, una figura solitaria, che si contorce in spasmi di dolore, fino a deformarsi. “Qualsiasi cosa in arte sembra crudele, perché la realtà è crudele”, disse l’artista parafrasando il poeta T. S. Eliot, per il quale, forse per questo, “il genere umano non può tollerare molto la realtà”.
Le opere di Bacon sembrano mettere in risalto gli aspetti degradanti del corpo umano, non di rado colto nelle sue necessità corporali. Le tele sembrano sospese tra l’ordine, determinato dal fondo monocromo, e il disordine, ottenuto anche con grumi di colore. Possiamo affermare con tutta sicurezza che la sua opera presenta una componente autobiografica, e questo soprattutto se consideriamo il gran numero di autoritratti prodotti.

Dal 1947 dipinse la sua serie più nota: i Pontefici, per un totale di quarantadue quadri. Nello Studio dal ritratto di Innocenzo X di Velázquez (ispirato al celebre quadro del pittore spagnolo dipinto nel 1650) spicca il viso dai tratti esasperati e la bocca spalancata, come se non potesse soffocare un urlo di dolore così denso e corporeo che sembra colpirci in pieno. Il sedile è appena tratteggiato con poche ma significative linee, che ne fanno cogliere la struttura portante. Solo la punzonatura della spalliera presenta dei decori, unica concessione al rango del Panphilj. I colori sono freddi e violenti, come le pennellate, che assomigliano più a ferite su un corpo in agonia. La figura è in parte ispirata al viso insanguinato della vecchia bambinaia nel film di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, La Corazzata Potëmkin (1925), che il pittore aveva forse visto a Berlino in gioventù. Un ulteriore riferimento alla cinematografia è nelle pennellate verticali, quasi a voler simulare un fotogramma rovinato. Il volto è quello di un pontefice contemporaneo, papa Pio XII, di cui l’artista conservò ritagli di giornale.

L’opera esprime uno dei temi che fondano la ricerca di Bacon, ovvero il drammatico dualismo tra la necessità e l’impossibilità di trovare un senso all’esistenza; in questo si avvicina al teatro dell’assurdo di Samuel Beckett, nel quale gli uomini appaiono privi di speranza. Come il drammaturgo irlandese, Bacon considerò infatti l’uomo come “un essere completamente futile, che deve giocare il suo ruolo senza ragione”.

Tommaso Amato

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