Parte quasi in un clima di leggero imbarazzo l’incontro stampa con Liliana Cavani presso la diciassettesima edizione del Ravenna Nightmare Film Fest. Un silenzio denso di interrogativi che stentano a prendere forma di fronte alla minuta figura di una donna la cui filmografia si trova impressa in maniera inscalfibile nella storia del cinema italiano.

Si parte così dall’evocare l’evento con il quale la giornata avrà culmine, ovvero la proiezione della versione restaurata di quello che, senza eccesso di dubbio, si può considerare il film più celebre della regista: Il portiere di Notte (1974). E qui, interpellata sull’argomento, Cavani scioglie immediatamente l’apparente timidezza e dà inizio a quello che sarà un denso viaggio tra situazioni ed esigenze che hanno mosso ed animato la sua arte.

Riguardo al restauro l’autrice si dichiara subito entusiasta, dato che senza di esso approcciarsi ad un film realizzato molti anni fa “sarebbe come entrare in una casa abbandonata ed invasa dalla muffa, mentre il restauro è in grado di portare come un raggio di sole in quel luogo”, perché “il cinema è un po’ come un libro che dovrebbe essere apprezzato anche anni dopo e se questo è un po’ offuscato non sarà altrettanto gradevole”. E a questo proposito annuncia l’arrivo del restauro di altre sue opere come Al di là del bene e del male (1977), il cui recupero è però ostacolato da un’intricata questione riguardante i diritti, ma soprattutto un altro film “realizzato con poche lire stanziate dalla Rai”, che è L’ospite (1973), il quale fu uno strano esperimento che poi divenne quasi introvabile. “La proprietà è della Rai, che purtroppo restaura pochissimo.” Un film particolare, concepito dopo aver partecipato ad una proiezione del suo I Cannibali (1970), presso un cineclub di Pistoia. “Al termine della proiezione mi si presenta un gruppo composto da strane persone. Sul momento non avevo capito di chi si trattasse, poi ho scoperto che essi erano degli ‘ospiti’ del manicomio provinciale di Pistoia.” In seguito scoprì che il gruppo che organizzava il cineclub collaborava anche con le persone ospitate nel manicomio fornendo delle attività ricreative, e proprio queste persone chiesero a lei di unirsi a loro e di affiancarla nel loro intento.

La regista accettò e si trovò quindi in contatto con delle personalità problematiche e ritenute addirittura pericolose da chi si doveva prendere cura di loro. Ignara di tale pericolo, Cavani si accostò ad essi con uno sguardo incondizionato, e scorse così le varie ingiustizie e finanche i soprusi che avvenivano in quel luogo. Questa esperienza generò un seme destinato a germogliare fino a trasformarsi successivamente in un film che raccontasse la situazione difficile di queste persone in un periodo in cui l’argomento era ancora sconosciuto. Un’opera modesta, in cui molte delle maestranze coinvolte non vennero nemmeno pagate e che venne presentato al Festival di Venezia nell’indifferenza generale. Questo per dire che la Rai avrebbe potuto investire maggiormente in quella pellicola, data anche l’urgenza del tema, ma questa volontà non venne manifestata e quindi il suo prossimo restauro acquista un valore ulteriore.

Tornando a parlare de Il portiere di notte, Cavani ha modo di illustrare i passaggi e le testimonianze che hanno l’hanno portata a concepire la sua storia più famosa, a partire dall’iconica immagine di Charlotte Rampling in divisa da SS, il cui merito secondo la regista è da attribuire al costumista Piero Tosi. La genesi dell’idea va però cercata più in profondità nella carriera della cineasta: “io nel 1965 ho realizzato per la Rai un documentario sulle donne della Resistenza. Il quale secondo me avrebbe anche dovuto circolare di più, ma la Rai non è molto coraggiosa, arriva sempre fino ad un certo punto e poi si ferma per paura delle critiche. Questo per molte ragioni che conosciamo: cambiano i governi e a volte ci sono i coraggiosi, altre invece i titubanti che non sfruttano un prodotto che magari hanno anche finanziato.” Si tratta, secondo la regista, dell’unico documentario riguardante un periodo e un luogo definito della Resistenza, ovvero la Repubblica di Sassuolo, la quale era stata costituita da un colonello donna: “donne con le armi, le quali ci sono state ma di cui non si è parlato, e questo è molto antipatico. Mi sono sempre meravigliata anche di come l’ANIPI non abbia sfruttato questa testimonianza. Forse perché io ho fatto un film su Francesco e pensavano che fossi una che andava a messa tutte le mattine”. Cavani si concede anche delle battute taglienti, come quando in seguito afferma che “se avesse trattato di uomini forse lo avrebbero fatto circolare di più, ma sappiamo che la questione femminile è molto delicata ancora oggi.”  

Prosegue poi: “invece si tratta di un documentario di vitale importanza, perché racconta di donne che hanno rischiato la vita per difendere la loro condizione e per poter essere considerate come persone degne di essere presenti a tutti i livelli.” E quindi segue il racconto delle varie persone conosciute, come una maestra piemontese deportata a Dachau, dove grazie all’incontro con delle partigiane francesi apprese il valore della condivisione ed una radicata coscienza politica, oppure una donna milanese che ad Auschwitz conobbe un lato terrificante di sé stessa, scoprendosi capace di azioni che mai avrebbe creduto di poter fare in nome della sopravvivenza. Tra le storie citate come fonte di ispirazione c’è anche quella di una partigiana di Bergamo, legata al letto e torturata, oppure quella di una fiorentina imprigionata insieme alla madre, la quale poi venne fucilata.

Il film di Liliana Cavani nasce dunque da questa esperienza e dal desiderio di affrontare e rappresentare il trauma vissuto dalle donne incontrate. Un’esigenza ancora fervida, che non risparmia feroci attacchi al presente: “quando sento qualcuno che nega mi chiedo perché non lo mettano a vedere quei  filmati realizzati all’apertura dei campi, in cui si vedono donne e uomini di trenta o quarant’anni che possono pesare venticinque chili. E quelle non sono comparse.” E a proposito dell’importanza dei testimoni cita il caso recente della senatrice Segre, la quale “addirittura viene offesa! Siamo un Paese un po’ strano.”
Il portiere di notte si propone così di indagare l’animo di una persona che non è riuscita a superare il trauma subìto, racchiudendo la tragedia di tutte le donne conosciute dalla regista.

Il suo tocco aggressivo genera fin da subito un film molto controverso, e a tal proposito la regista ricorda: “quando è uscito in America, il distributore mi mostrò una copia del New York Times su cui c’erano due pagine dedicate al mio film, una contenente solo critiche positive ed un’altra con critiche esclusivamente negative.” Un contrasto generato anche dal fatto che qualcuno lo consideri solamente “un film sul sesso, per questo motivo un imbecille mi propose poi di girare addirittura Salon Kitty, (film che verrà poi realizzato da Tinto Brass nel 1976) e questa è ignoranza, la quale si manifestò anche quando la messa in onda del film venne spostata dal canale 1 che allora aveva quattro milioni di utenti, al canale 2, che invece era visibile ad un milione di spettatori, solo perché l’ambasciata tedesca in Italia aveva dichiarato di non gradire l’opera.”  Prole che giungono con impeto da chi considera un atto “assurdo e colpevole non raccontare la Storia. E se il cinema ci dà questa possibilità, perché non farlo?”

Chiamata poi ad esprimersi sul proprio percorso lavorativo e sul suo ruolo nell’industria cinematografica in quanto donna, Cavani ammette con modestia di essere stata piuttosto fortunata. L’aver frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia è sicuramente stato un lancio importante a cui ha fatto seguito la vittoria di un concorso che l’ha portata a lavorare in Rai, per la quale rifiuta una mansione burocratica e si dedica alla realizzazione di documentari: “il cinema è stato una vocazione, in qualche modo.”

Avviandosi alla conclusione dell’incontro, la regista viene chiamata a ripercorrere le proprie esperienze avvenute in Asia nella fase di ricerca per il suo film Milarepa (1973), durante la quale ebbe la possibilità di scoprire le culture orientali ed apprezzarne le differenze rispetto alla nostra. C’è poi spazio anche per il ricordo della sua collaborazione con la star holywoodiana Mickey Rourke, protagonista del lngometraggio del 1989 Francesco, seconda opera della regista dedicata al Patrono d’Italia. “Mi aveva colpito la sua interpretazione in L’anno del dragone (1985) di Cimino. Io per questo ruolo cercavo una persona seria e credibile anche se un po’ folle.” Racconta quindi del loro incontro avvenuto nei pressi di New York: “mi ha fatto un’ottima impressione. Era molto umano, aveva una gentilezza spontanea, e si è rivelato generoso e carino. Mi ha lasciato una sensazione molto bella. Ricordo quando mi chiese ‘ma io come dovrei essere nel film?’ e io gli risposi ‘esattamente così’.”

La conclusione è stata invece dedicata ad un pensiero sull’arte cinematografica, in cui Cavani ha espresso tutta la sua ammirazione per il cinema neorealista ed in particolare per l’opera di Vittorio De Sica: “se fossi costretta a scegliere un film da salvare, questo sarebbe L’oro di Napoli (1954).” Discorso che permette alla regista di chiudere l’incontro condividendo la sua personale idea di cosa il cinema dovrebbe essere: “il significato di un’opera d’arte, di lavoro – ars inteso come lavoro – è un’espressione di esperienza, è una specie di approfondimento dello stato dell’umano, di quello che siamo. Io ho cercato sempre di fare dei film che mi toccassero, qualche volta non sono riuscita a farlo in maniera convincente, altre invece di più. Il cinema secondo me è quindi il frutto dell’esperienza umana, è, come per altre professioni, qualcosa per chi lavora con il pensiero e con la fantasia.”

Andrea Pedrazzi

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