Esordisce come fosse un dramma neorealista il Pinocchio di Matteo Garrone. Roberto Benigni, mai così vulnerabile ed emaciato sul grande schermo, veste i panni di un Mastro Geppetto immerso in una situazione di totale miseria. Non è rimasto nulla a quest’uomo che lesina il cibo in cambio di improbabili favori, nemmeno un ciocco di legno con il quale poter realizzare un burattino con cui girare il mondo per guadagnarsi da vivere onestamente. Un incipit opprimente, scarno e drammaticamente reale nel quale però si possono già intravedere le venature della fiaba destinata a prendere vita nei minuti successivi.
C’è qualcosa di magico che il regista romano riesce ad imprimere alle sue storie sfruttando niente più che uno sguardo attento e ravvicinato nei confronti dei suoi personaggi. Attraverso i piani stretti ed enfatici, esaltati dalle cupe sferzate cromatiche degli interni, Garrone permea le prime scene di un alone dickensiano che costituisce un fertile terreno per i passi successivi, in cui l’opera è destinata a sciogliere le briglie del realismo per consentire la deflagrazione del fantastico. I vari snodi, le tappe cruciali e i passaggi iconici sono talmente celebri e radicati nella memoria collettiva da rendere pressochè irrealizzabile una rivisitazione inedita della fiaba di Collodi. Eppure Garrone sfiora l’impossibile, infonde alle celeberrime (dis)avventure del burattino senza fili il proprio timbro e riesce, per quanto possibile, a concedere un’anima nuova al racconto di Pinocchio. Cupo e adulto dove a regnare sono le tinte forti della fotografia di Nicolaj Brüel e i perturbanti effetti prostetici di Mark Coulier, eppure sempre irrorato da un tocco tenero e caloroso. E se questo approccio ibrido rende da un lato questo film un prodotto difficilmente catalogabile e vendibile (a tratti eccessivamente dark per il pubblico delle famiglie, ma allo stesso tempo mai pienamente adulto), dall’altro la magnificenza dell’ammaliante comparto visivo garantisce all’opera la dose di fascino necessaria a giustificarne la massiccia distribuzione nelle sale in questo periodo dell’anno. Sotto la mano attenta di Garrone, docile ma volta ad un’artigianalità ruvida come già mostrato ne Il racconto dei racconti (2015), Pinocchio assume la forma di una fiaba natalizia atipica: a tratti perturbante, ma pervasa da sprazzi di fervida commozione.

Infine, risulta impossibile non sorprendersi per l’ennesima volta della capacità innata che questo regista mostra nella direzione attoriale. Volti estremamente noti come quello di Gigi Proietti, Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo vengono qui deformati fino a mostrare connotazioni mai assunte in precedenza e perfettamente conformi al registro utilizzato. Ma la più grade sorpresa resta il giovanissimo Federico Ielapi, che nonostante il massiccio intervento di make-up riesce ad attribuire al suo burattino parlante una folgorante spontaneità. E questo resta solamente il più clamoroso tra i molteplici elementi di Pinocchio che confermano lo sguardo di Matteo Garrone come il più limpido e vitale nel panorama cinematografico italiano contemporaneo. L’ennesimo umile prodigio di un autore dall’animo garbato e dal talento immane.
Andrea Pedrazzi