Arturo (Stefano Accorsi) e Alessandro (Edoardo Leo) sono una coppia di lunga data. Vivono in una grande casa che somiglia molto a quella che lo stesso regista descriveva nel 2001 nelle Fate Ignoranti: un ampio salone pieno di persone diverse legate tra loro da un’amicizia familiare. Ogni persona che ci viene descritta è caratterizzata da un particolare difetto, limite, pregio o semplicemente da una sfumatura ironica. Quella che subito risalta all’occhio è la condivisione, la felicità scandita a colpi di cibo, sorrisi, frasi ironiche e arrivi quasi imprevisti. 

L’arrivo importante in casa è quello di Annamaria (Jasmine Trinca), una madre single con due figli, Sandro e Martina. Lei ha un rapporto profondo con i proprietari di casa, un amore e un affetto importante verso Alessandro costruito negli anni. Una malattia la porterà ad assentarsi e a chiedere ai due uomini di occuparsi dei suoi figli per pochi giorni. 

La storia che viene proposta è profonda. La coppia ha dei forti problemi relazionali e l’arrivo dei due bambini rimescolerà le carte della loro quotidianità. Tra un pic nic, un viaggio in traghetto per raggiungere la Sicilia e la leggenda della Dea Fortuna, il mondo che viene descritto è il più variegato possibile, con una narrazione che rimane fedele alla produzione cinematografica dello stesso regista, che introduce sempre un legame d’amore che si potrebbe definire come non lineare, fuori dalle probabili aspettative di un pubblico abituato ad altri tipi di narrazioni. 

Attraverso lo sguardo di Ferzan Özpetek, lo spettatore viene messo in grado di poter entrare nelle dinamiche di coppia dei due, viene posto dinanzi al dubbio dell’incomprensione completa di ciò che non viene detto, di ciò che sta accadendo ma viene reso sin dai primi minuti consapevole che la storia che sta vedendo svolgersi e ampliarsi nello schermo terminerà probabilmente nella maniera più naturale possibile, seppur esasperata, seppur con toni ironici attraversati da una recitazione non del tutto realistica. 

La regia è quella a cui il pubblico si è affezionato negli anni, i personaggi sembrano costruiti su ruoli già visti, forse cresciuti, forse rimasti incastrati proprio nelle storie narrate nella cinematografia del regista. Il focus questa volta è genitoriale, il rapporto instauratosi tra adulti e bambini, con sbagli, litigi, momenti di gioco e studio. Il legante è l’affetto che tutti provano verso gli altri. I compromessi, il rischio, i problemi affrontati insieme. 

Ciò che viene visto non è importante tanto quanto quello che viene ricordato, immaginato, udito. Il rumore scandito da colpi contro una porta iniziali accompagnerà il pubblico inconsapevole fino alla fine, cullato dall’estetica rappresentativa di tutta la narrazione del regista che segna ancora una volta la collaborazione con il direttore della fotografia Gian Filippo Corticelli.

Il film lascia un gusto amaro nella bocca dello spettatore, pone però un’atmosfera di normalità che forse ha bisogno ancora di essere esplorata a fondo. 

Tra le critiche ricevute, sia per una narrazione che pone ancora una volta due uomini bianchi appartenenti a un ceto sociale medio alto nei panni di uomini gay, sia quelle che potrebbero portare a ridicolizzare una recitazione al di fuori di schemi che puntano in maniera forzata a volte e far percepire una storia come reale, il pubblico dovrebbe chiedersi cosa c’è di importante in questo film: come sono i personaggi o cosa vogliono rappresentare? 

La risposta è soggettiva, ma non può e non deve essere superficiale.   Özpetek segna l’arrivo di un nuovo anno con un lavoro raffinato e di alto livello. 

Buona visione. 

Sarah Corsi

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