Adattando il romanzo breve scritto da Buzzati nel 1935, Ermanno Olmi trova un ambiente ospitale per il suo inconfondibile tocco magico e disincantato. Una storia docile e sussurrata, in cui i toni della voce umana sono moderati per lasciare spazio al solenne concerto di una natura affascinante ma anche aspra e indomabile. I conosciuti, amati e già omaggiati territori alpini (questa volta siamo nelle zone montane comprese tra Auronzo di Cadore, il valico alpino delle Tre Croci ed il Comelico Superiore), vengono rappresentati da Olmi attraverso uno sguardo che ne enfatizza la vitalità nascosta, fino a renderli il principale personaggio del suo film del 1993.
Ne Il segreto del bosco vecchio, la natura viene presentata come incarnazione degli antichi valori di cui il cinema del regista lombardo è intriso fin dagli albori. Valori che vengono pericolosamente minacciati dall’ambizione personale e senza scrupoli del colonello Sebastiano Procolo, cui un austero Paolo Villaggio è chiamato ad attribuire sembianze e arido temperamento. In una prova recitativa sobria, spoglia da qualsiasi fantozziano eccesso, il celebre attore genovese interpreta un personaggio caricato di tutti i vizi e le prevaricazioni veicolate dalla modernità. Elementi che Olmi contrappone in quest’opera al primordiale equilibrio di un mondo non ancora contaminato dall’attività nefasta degli esseri umani.
Due realtà contrastanti che si incontrano generando inevitabilmente un conflitto, il quale però risulta sempre gestito con toni pacati. L’autore instilla una discreta dose di pedagogismo che però non risulta mai invadente, perché fatta emergere attraverso un racconto tanto infantile nella concezione drammaturgica, quanto magniloquente nella sua estetica evocativa e metaforica. Questo è il fronte su cui Olmi si permette di concedere libero sfogo al suo istinto fanciullesco, sprigionando un’enfasi contemplativa attraverso cui un paesaggio statico viene ravvivato dal filtro fiabesco della raffigurazione cinematografica.

La voce del bosco si espande attraverso i frammenti e le vite che lo animano, palesandosi come luogo immacolato e fragile, minacciato dall’incedere della macchina umana. E se la sempiterna dicotomia tra interesse privato e bene comune viene portata in scena attraverso una disparità di valori tale da non lasciare dubbi in partenza sul possibile esito dello scontro, la storia acquista una sua forza nel mostrare come il poetico e selvaggio incanto della natura agisce sul colonnello che si adopera per distruggerlo fino a spingerlo ad un atto di autocritica impensabile all’apertura.
Per queste ragioni, Il segreto del Bosco Vecchio rimane un apologo ingenuo ma profondamente gratificante, che nei primi anni Novanta confermava l’efficacia della cifra autoriale di Ermanno Olmi, non sempre esaltata a livello critico o in grado di generare attrattiva sul grande pubblico, ma comunque pervasa da un senso di verità inscalfilbile e di una limpida ed infinita bellezza.
Andrea Pedrazzi