Da una decina d’anni televisione, cinema e rete sono letteralmente sommerse da film e serie “di periferia”, al punto che persino gli addetti ai lavori si sono sentiti in dovere di farne una parodia (A piedi Scarzi).
La periferia è diventata uno dei filoni più sfruttati del Made in Italy (insieme alla criminalità organizzata, all’alta moda, etc.) e oggi spopola grazie a narrazioni stereotipate, situazioni talmente prevedibili da risultare imbarazzanti e prodotti al limite del cattivo gusto. Merce da esportare all’ingrosso insomma. Verrebbe quasi voglia di scriverci un pamphlet di swiftiana memoria: “Istruzioni ai registi per film sulla periferia”.
Questa versione kitsch dei drammi e dei problemi non presenta più alcun elemento di conflittualità: è un prodotto confezionato ad uso e consumo di “quelli che benpensano”.
Gli spettatori possono placidamente sedersi sul divano e vedere riaffermati i propri preconcetti, saziare in un colpo solo il bisogno di adrenalina dozzinale e dedicarsi a quel voyeurismo della marginalità che è tra gli sport più detestabili della società per bene.
Contro queste macchiette in salsa Netflix non ci resta secondo me che invocare e riscoprire L’odore della notte di Claudio Caligari, un film sporco, duro, nichilista e grottesco.
In questo film la banda di borgata sembra un’armata Brancaleone incattivita dall’assenza di prospettive e dalla dipendenza dalle rapine; pesci piccoli con piccole pretese che a stento riescono a campare.
I rapinatori sono pendolari che fanno la spola tra la borgata e i quartieri buoni della città, operai del crimine che si addormentano sul luogo di lavoro e dalle occhiaie segnate, un po’ razziatori e un po’ mendicanti. Non a caso la formula che annuncia lo scippo è un “Qualcosa per me” dal sapore amaro.
La periferia di Caligari è terra di nessuno popolata da poveri cristi esclusi dall’entusiasmo patinato degli anni ‘80 e ancor di più dall’edonismo sfrenato della tv commerciale. Un teatro di ombre che provano inutilmente a cambiare (o al limite cambiarsi i connotati), a sistemarsi con un piccolo bar di quartiere. Non c’è nessuna traccia di eroismo, di epicità né tantomeno di quella commiserazione che serpeggia in tanti prodotti recenti.
Come nel precedente Amore Tossico è il lato “fancazzista” e grottesco a trasformare il film in un piccolo gioiello. Sono i dettagli al limite dell’assurdo disseminati qua e là che rivelano quanto sia fondamentale non prendersi mai completamente sul serio quando si va in periferia, altrimenti si rischia di farne solo una caricatura stucchevole. Non siamo mica a New York.
Tra i preziosi momenti di poesia urbana del film: Little Tony che canta nel bel mezzo di una rapina, le pistole lanciate nel fiume come sassi, la seduta di terapia collettiva.
Il grottesco di Caligari è l’unico antidoto alla moraletta da Libro Cuore che commenta i drammi della periferia con un catechistico “poverini, chissà quanto soffrono… che brutta situazione”. Ne L’odore della notte invece, il commento è fatalista e senza redenzione: “mi dispiace, t’è andata male… è la vita”.
Il film è un grande omaggio allo struggente nichilismo della periferia, privo di retorica, lontano dalla dittatura del sentimentalismo e soprattutto senza doppi fini di intrattenimento seriale.
Un’ultima annotazione spetta di diritto al cast: Valerio Mastandrea è in stato di grazia (come già in Tutti giù per terra), Marco Giallini ispiratissimo, Giorgio Tirabassi ed Emanuel Bevilacqua come spalle d’eccezione.
Un film che vi consiglio di recuperare.
Marco Lera